Invidiare la storia coloniale altrui non è un buon modo per cominciare un racconto. Eppure, sdraiata all’ombra di una palma su una spiaggia caraibica, non riesco a pensare ad altro. Almeno fino a che una noce di cocco non mi cade a pochi centimetri dai piedi. Ma io che ne so di palme e cocchi? Non sono francese e non ho territori d’oltremare dove svernare senza dover fare i conti in un’altra moneta, senza dover rinnovare per forza il passaporto e senza dovermi cimentare in altre lingue. Nello specifico, il territorio d’oltremare in questione è la Martinica, isola delle Piccole Antille “scoperta” da Cristoforo Colombo il 15 giugno del 1502 in occasione del suo quarto viaggio verso le Indie. Siccome il 15 giugno è anche il mio compleanno e Colombo fino a prova contraria era italiano, decido che Martinica è anche un po’ la mia colonia ma non lo dirò ad alta voce perché la storia coloniale non è esattamente un argomento da spiaggia. Soprattutto se la colonia è stata isola di commerci di esseri umani per almeno un paio di secoli. E il tema dello schiavismo è ancora causa di forti confronti tra chi discende da quella schiavitù e la madrepatria che si difende dicendo di averla abolita nel 1848. A leggere “Texaco” dello scrittore di Martinica Patrick Chamoiseau si comprende meglio da dove provenga quel rancore, ma non essendo stata una “colonizzata”…
I miei pensieri cambiano prospettiva una volta in acqua. Ovviamente cristallina, ovviamente di una temperatura molto piacevole, ovviamente piena di pescetti tropicali che non riconosco e ovviamente punteggiata da piccole imbarcazioni di legno colorate; da qualche parte ci sono anche tartarughe e delfini. La cartolina è gentilmente offerta dalle acque della Plage du Carbet, romantica e solitaria quanto basta e con una bella vista sul lato caraibico dell’isola. Il paesaggio è doverosamente lussureggiante, come è giusto che sia ai tropici, e poi c’è il profilo della Montagne Pelée, 1397 metri di vulcano la cui cima è spesso coperta da una nuvoletta fantozziana. Succede frequentemente coi vulcani e di sicuro c’è una spiegazione scientifica che ignoro, oppure è solo tremenda sfiga perché mi sembra la stessa che ho visto sul Pico alle Azzorre e sul Monte Fuji a Tokyo.
Questa montagna vulcano ha però una storia diversa che ricorda più quella del Vesuvio e di Pompei. La Pompei della Martinica si chiama Saint-Pierre, un posto in cui, evidentemente, di Pompei però non avevano mai sentito parlare. E dire che nella primavera del 1902 la “montagna calva” aveva dato segnali di turbolenza: piogge di ceneri, forte odore di zolfo, una valanga di lava che aveva distrutto una distilleria di rhum, un mini tsunami… Le autorità locali menzionarono proprio Napoli e il Vesuvio per rassicurare la popolazione che infatti rimase a popolare la vivace Saint-Pierre, con le sue case colorate, il fiorente porto, il grande teatro dove si esibivano persino le starlette provenienti dall’Europa.
Le foto dell’epoca esposte nel nuovo, piccolo ma curatissimo museo memoriale della catastrofe raccontano di una città di 30mila abitanti che se la passavano piuttosto bene. Un prima a cui è seguito un dopo cominciato alle 7.50 del mattino dell’8 maggio 1902, quando un’esplosione distrusse in parte la montagna che si riversò velocissima su Saint-Pierre, uccidendo sul colpo praticamente tutta la popolazione. Anche quella che stava sulle imbarcazioni, anche quella che stava cercando di scappare, anche quella che aveva fatto finta di niente come il Governatore dell’isola, rimasto in città con la moglie. Tutti tranne uno. Forse anche altri due o tre, ma io voglio credere più alla versione “ne resterà uno solo”. Mentre il vulcano buttava ancora fuori lapilli e fumo, già accorrevano i soccorsi dalle altre città e dal mare. Sempre nel museo della catastrofe mi inchiodo davanti al video girato da George Melies lungo la costa di Saint-Pierre e non ci sono che macerie. Mi ricorda un po’ i video girati a Dresda dopo il bombardamento alleato del febbraio del 1945. In entrambi i casi ciò che rimase fu il niente.
Per un attimo provo a immaginare le grida del “tranne uno” travolto a sua volta da macerie e corpi, al buio, nel fumo di una città che non esiste più, mentre chiede aiuto pensa, forse, che tutta l’umanità sia finita. C’è anche una poesia una poesia di Giovanni Pascoli del 1906 che ne parla, “Il negro di Saint-Pierre”, della quale condivido l’estratto in cui è il vulcano a spiegare al sopravvissuto che cosa è successo:
Io sono, negro, la Montagna Calva,
io sono il caso, io sono il dio più forte,
che gli altri uccide, ma che te, ti salva.
L’ebbero, negro, l’ebbero la morte!
O negro, uccisi il giustizier sul palco,
uccisi il carcerier dietro le porte.
L’uomo si chiamava Ludger Sylbaris, noto anche come Auguste Cyparis e, come ci fa intuire il Pascoli, era prigioniero in carcere in una cella sotterranea che l’aveva in qualche modo protetto sia dalla forca sia dal vulcano. In due minuti la sua vita cambiò. Non si sciolse come i suoi concittadini, i cui oggetti più preziosi sono oggi esposti nel museo. Certo, aveva qualche bruciatura sul corpo e quei tre o quattro giorni che servirono per trovarlo e metterlo in salvo non devono essere stati tra i più piacevoli, come si può immaginare osservando i resti di quel carcere, ora zona archeologica a Saint-Pierre (curioso che il carcere fosse accanto al teatro). Però è innegabile che ebbe una fortuna sfacciata. Fu ovviamente graziato e lasciato libero di rifarsi una vita. Me lo immagino a scolarsi una bottiglia di rhum locale (innegabilmente buono, ma questa è un’altra storia) e poi baciarsi i gomiti. L’uomo che era sopravvissuto al giorno del giudizio divenne una celebrità. La sua foto comparve su tutti i giornali del mondo e, oltre a ispirare il Pascoli, stimolò la curiosità di un certo Barnum, il cui circo era considerato “the greatest show on earth”, che lo assunse tra le sue attrazioni insieme alla donna barbuta, la donna cannone, l’uomo più alto del mondo, quello più basso, ecc. ecc. Non è dato sapere quanto durò la collaborazione né come visse la sua fortuna, né se tornò mai in Martinica a vedere come Saint-Pierre veniva rimessa in piedi, più piccola, meno pretenziosa, ma sempre all’ombra del vulcano.