Quel giorno a Donetsk era giorno di matrimoni. Era il 2013, era estate, e tanti sposi eleganti festeggiavano la nuova vita assieme. In centro, davanti al Municipio, ci imbattemmo in una giovane coppia, lei raggiante salutava noi, ospiti curiosi. Ricordo che era famiglia numerosa, tanti amici, bella gente, una bella situazione. Essere italiano da quelle parti è un ottimo biglietto da visita. Così ci offrirono uno spumante con etichetta in cirillico, in bicchieri di plastica. Dolciastro, sgasato, caldissimo: era agosto. Pochi minuti dopo eravamo invitati ai festeggiamenti. Purtroppo, dopo i ringraziamenti di rito, non accettammo. Era una situazione stupenda ma avevamo la marshutka nel pomeriggio e un ritmo serrato di incastri nelle settimane a seguire. Non potevamo perdere quel bus e ce ne andammo a passeggiare nella vicina piazza, all’ombra di un grande Lenin, rimpiangendo la mancanza di tempo, sognando – almeno io – le amiche della sposa e una ipotetica vita in lingua russa.
Invece che al banchetto andammo allo stadio, alla Donbass Arena. Ci avevano giocato l’Europeo l’anno prima. Un impianto bellissimo, moderno, sfavillante. C’era lo shop della squadra locale, lo Shaktar Donetsk, con il merchandising ufficiale, e dieci anni fa era quasi avveniristico. Lo era in Ucraina orientale, ma anche nell’Italia di provincia. Ricordo che vendevano anche dei simil-elmetti di plastica arancione come gadget. Il Donbass è terra di grandi ricchezze minerarie, con un’economia che ruota (ruotava?) attorno all’estrazione del carbone e all’acciaio, con quel che ne consegue per il paesaggio. Una ventina di miniere e una decina di acciaierie a rendere affascinante – o inquietante che dir si voglia – il panorama. Donetsk era centro nevralgico di un mondo russofono e minerario, una città ricca, con bei negozi e marchi di lusso. Lo Shaktar Donetsk dominava il campionato ucraino e faceva bene nelle coppe europee, grazie a una nutrita colonia di brasiliani. I suoi tifosi erano soprannominati “i minatori” e ovunque campeggiava quel logo dai martelli incrociati su sfondo arancionero, così intrisi di working class e di sottoculture ribelli. Proprio davanti allo stadio, il dramma. Avevo rotto una fotocamera analogica a cui tenevo tantissimo: il regalo di mio padre per i miei vent’anni. Una macchinetta giapponese che costava nel Duemila centinaia di migliaia di lire. Una macchinetta che non mi portavo mai in giro. Nei primi interrail e nei primi viaggi preferivo lasciarla a casa, al sicuro nell’armadio. Per la paura di romperla, di farmela rubare, di perderla. Che mi limitasse nel girare a piedi. Se non hai nulla di valore addosso, sei più spavaldo. E intanto erano cambiati gli standard e le tecnologie e quella macchina era diventata vecchia, obsoleta, una sorta di vezzo da hipster che fotografava ancora a pellicola. L’avevo ripresa in mano l’estate precedente, una decade dopo averla ricevuta in regalo. Adesso, volevo portarla sempre con me.
Era giorno di matrimoni, giorno di festa. Volevo fotografare una bellissima sposa di bianco vestita, che passeggiava dopo le foto di rito nel vicino Parco Lenin Konsomol. Gli enormi monumenti ai Liberatori del Donbass, un minatore in armi e un soldato sovietico, benedicevano i nuovi sposi. I russi, nella concezione vecchio stile e allargata a quasi tutti i sovietici, inclusi specialmente gli occhi a mandorla dei vari stan dell’Asia centrale, ai matrimoni amano farsi fotografare con i monumenti alla Vittoria della Grande Guerra Patriottica. Monumenti che trovi ovunque disseminati ogni manciata di chilometri nell’ex gigante rosso, dalle zone occupate nell’Europa mitteleuropea fino a all’estremo oriente che più estremo vi possa venire in mente. L’unico paragone è con i monumenti ai caduti della Prima Guerra Mondiale, capillarmente presenti nella nostra Penisola. Un culto del sacrificio stranamente condiviso in quasi tutta Europa.
Il parco confinava con lo stadio. La sposa e lo sposo, lei indubbia modella e lui ragazzo apparentemente molto fortunato e dalle qualità nascoste, erano in posa felici davanti all’impianto sportivo. Mi sembrava lo scatto della vita. Nel tirar fuori, o meglio cercare di, la fotocamera dallo zaino, mi cade a terra. STOC. Un rumore, sordo, che lasciava presagire il peggio. Non ero nemmeno ubriaco e per questa mia frenesia di immortalare il momento non ci saranno veli bianchi e capelli biondi, completi da cerimonia adidas e scarpe a punta scattati in bianco e nero ISO100 con pellicola Lomography. Corpo e obiettivo si erano staccati. Si era rotto un pezzo di plastica. Un piccolissimo pezzo di plastica. Un piccolissimo pezzo di plastica necessario a tenere unito il tutto. E questo era il primo giorno di viaggio. Ogni volta che avrei aperto lo zaino, per tre settimane sarei stato davanti a questo ricordo: una foto stupenda mai scattata e una macchina fotografica da buttare.
A Donetsk era giorno di matrimoni e della macchinetta fotografica in realtà me ne sono dimenticato, una volta in Italia. Non dimentico invece quel che ho provato pochi mesi dopo, quando quella regione era stata investita dalla violenza della guerra. In Donbass, si combatte da tanti anni, benché sui media italiani questa zona sia diventata di moda solo da qualche settimana. Colpi di mortaio, morti civili, una guerra di trincea e posizione che odora di storia militare. L’odore di morte proprio di ogni guerra? Qui quasi peggio, dato che parliamo di popoli storicamente fratelli e di una guerra quasi civile.
A Donetsk era giorno di matrimoni e tutto questo lungo fiume di parole serve solo a me. Parlare di una macchina fotografica da buttare, a distanza di anni, serve solamente a riflettere sul mio sentirmi addirittura sollevato, benedetto dal fato che credevo avverso. Non ho fotografie di quella festa, non ho immagini di balli e di Vashe zdorovye urlati ai giovani sposi, di calici alti e Na zdorovie tonanti in faccia al sole. Non ho il pensiero di dove saranno amicizie fugaci ma intense, come quelle nate in una festa, durante un viaggio. Non vivo l’apprensione di avere conoscenti diretti rimasti sulla linea del fronte.
Non da ieri, non da quando la guerra in Europa è tornata in prima pagina, ripenso a quello stadio, ormai ridotto in macerie, dove si è combattuto metro per metro. Ripenso a quell’aeroporto, che allora era nuovo e di cui ora rimangono solo calcinacci sporchi di sangue e qualche bandiera sdrucita di chi ha combattuto per difendere un metro di terreno della propria patria, qualsiasi essa fosse.
A Donetsk era giorno di matrimoni, c’era un bel sole caldo e le spose erano bellissime. Chissà come stanno oggi. Per fortuna non conosco i loro nomi e non posso andare a cercarli nei social. A volte è meglio non ricordare i dettagli.