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Una passeggiata a El Mellah

Place des Ferblantiers, o piazza Qzadria, originariamente regno dei lattonieri, è oggi popolata dagli esercizi commerciali più diversi e anche da svariati caffè. Qui, all’ombra delle non numerose palme, è molto piacevole fermarsi per una fresca citronade alla menta e indugiare a lungo osservando il passaggio della gente, indovinando i nidi delle cicogne su quel che resta delle circostanti mura del palazzo El Badi, facendosi ammaliare (senza capire) dai coloriti discorsi dei vicini e dei camerieri o spiando nei tajine che vengono scoperchiati sui tavolini limitrofi. C’è voluto un grande sforzo di volontà per non restarci a oltranza e riprendere il cammino alla ricerca delle spezie. Attraversando la piazza in direzione del palazzo Bahia, e inoltrandosi poi in un sottopasso seminascosto tra i negozi di lampade e lanterne sul lato opposto a quello dei caffè, si accede al souk des épices, il mercato delle spezie. Se ci si va nel primo mattino o nel tardo pomeriggio, quando la calca di turisti non è scatenata e spazi, volumi e atmosfere sono fruibili senza l’invadente e garrula presenza dei gruppi e delle loro guide. I lunghi e severi corridoi del souk, finché i negozianti non li colorano con le loro merci variopinte (mai prima delle 10.30 del mattino), hanno l’aspetto di anditi di un carcere con i portoni marrone scuro tutti uguali, serrati come sono con chiavistelli e lucchetti, veri topoi di Marrakech.

Foto © Gian Piero Piretto

Progressivamente le attività si animano, prima con grandi lavacri della strada antistante l’esercizio, poi con l’esposizione dei barattoli, dei bidoni e dei sacchi contenenti le spezie, i cosmetici, le granaglie. E il via vai di persone cresce e la frenesia aumenta. Procedendo lungo le labirintiche strade interne, percorse anche dalle fastidiose onnipresenti e strombazzanti motorette, si uscirà nel quartiere ebraico, El Mellah, termine che, sia in ebraico che in arabo, significa ‘sale’. Si pensa che la terra su cui fu permesso agli ebrei di stabilirsi fosse stata un tempo un magazzino di sale o luogo dove veniva immagazzinata l’acqua salata. Secondo altre fonti il nome deriverebbe dalla consuetudine che assegnava agli ebrei il compito di cospargere di sale le teste dei condannati a morte prima dell’esecuzione. La prima parte del rione, ancora legata al commercio di spezie, brulica di gente (anche turisti stranieri), prodotti, rivenduglioli e botteghe. L’architettura delle case denuncia una significativa specificità: sono sviluppate in altezza, per sfruttare la scarsa area a disposizione, e dotate di loggiati, balconi e finestre che si affacciano sulla via, anziché all’interno della corte come nei tradizionali riad marocchini. Eccoci in quello che è stato il quartiere ebraico di Marrakech.

Foto © Gian Piero Piretto

Gli ebrei marocchini fanno risalire la propria storia ai profughi fuggiti verso ovest dopo che il re babilonese Nabucodonosor distrusse il primo tempio ebraico a Gerusalemme nel 586 A.C. Abbondano anche leggende su ebrei che visitarono il Marocco dalla Terra d’Israele in tempi biblici per acquistare oro da riportare in patria. Inizialmente erano artigiani, gioiellieri, sarti e potevano operare a Marrakech ma non trascorrervi la notte, venendo condannati a morte in caso di trasgressione. Dovevano quindi risiedere nei villaggi circostanti la città, a eccezione dei rappresentanti dell’arte e della scienza ammessi a corte, che assunsero in alcuni casi anche la carica di visir. Ma fu quando Abdallah El Ghalib salì al potere nel 1557 che la comunità ebraica fu trasferita nella nuova area di Mellah. Erano giunti intanto in Marocco anche i raminghi ebrei sefarditi fuggiti da Spagna e Portogallo in seguito al Decreto dell’Alhambra (1492) con cui la regina cattolica Isabella di Castiglia aveva espulso la comunità da tutto il suo territorio. Ci sarebbero volute generazioni perché i due gruppi si mescolassero. Quelli che avevano dimorato a lungo in Marocco si autodefinivano Toshavim: “residenti” e molti di loro parlavano dialetti locali incorporando parole ebraiche e berbere marocchine. I nuovi arrivati, ​​spagnoli e portoghesi, erano conosciuti come Megorshim: “coloro che sono stati espulsi”. Il quartiere era equivalente ai ghetti europei, ma con una particolarità: adiacente al palazzo del sovrano, questo territorio destinato ai non musulmani non avrebbe avuto intenzioni restrittive quanto precauzionali, se è vero che la sua posizione accanto alle residenze del potere aveva lo scopo di proteggerne gli abitanti, posti sotto la tutela del re, e al contempo renderne più facile la tassazione.

Foto © Gian Piero Piretto

Fino agli anni Venti del XX secolo, il Mellah di Marrakesh ha ospitato la più grande comunità ebraica del Marocco, con dozzine di sinagoghe e scuole. Marrakesh era diventato un importante centro per lo studio del Talmud e della Kabbalah, il misticismo ebraico. Secondo il censimento del 1947 la locale comunità era composta da oltre 50.000 persone. Mentre gli ebrei di altri mellah marocchini subivano ondate di violenza e vivevano in povertà tra pregiudizi intensi, a Marrakech si godeva di condizioni migliori. Con la fondazione dello Stato di Israele nel 1948, la violenza divampò ancora una volta contro i giudaici marocchini. Sebbene quelli di Marrakesh fossero in gran parte al sicuro dai massacri e dai pogrom che avvenivano in altre città del Paese, molti si unirono all’esodo dei connazionali in fuga. Tra il 1948 e il 1971, oltre duecentocinquantamila ebrei si trasferirono dal Marocco nello Stato ebraico. Oggi a Marrakech ne rimangono meno di 175, una decina dei quali risiedono ancora nel Mellah, mentre gli altri si sono trasferiti nell’elegante quartiere moderno di Gueliz, edificato durante il protettorato francese e nel vecchio ghetto si sono insediate famiglie mussulmane. Delle 35 sinagoghe ne restano solo due. Nel 2017 il re del Marocco Muhammad VI ha però deciso di riconsegnare al quartiere, che era stato più recentemente ribattezzato Hay Essalam, il suo antico nome e riassegnare alle vie la loro storica denominazione ebraica.

Addentrarsi nei vicoli che lo costituiscono è un’esperienza di atmosfere da vivere con discrezione. Molte case sono in rovina dopo il devastante terremoto del settembre 2023. Altre ospitano negozi che servono la comunità locale, anni luce lontani da quelli turisticizzati di rue Riad Zitoun el Kdim. Gruppi di donne siedono sui gradini delle case a chiacchierare, bambini si riconcorrono, asinelli trasportano il loro carico, colonie di gatti si aggirano ovunque. Si entra in una dimensione spazio-temporale lontana e diversa che richiede attenzione e rispetto. Ho scattato poche fotografie proprio per non invadere con la mia curiosità la vita privata di persone che nella maggior parte dei casi ignorano lo straniero di passaggio, in altri, cortesemente, segnalano senza essere stati interpellati, la direzione da seguire per raggiungere la sinagoga o il cimitero, consapevoli che una o l’altra destinazione possa aver portato fin là il turista di turno. Si cammina tra l’indifferenza di gente che affronta la propria quotidianità accettando senza vistose reazioni la violazione del loro territorio da parte di forestieri. Ancora pochi, fortunatamente, e sostanzialmente corretti. Qui si capisce, meglio che altrove, perché Marrakech era chiamata la città rossa. Procedendo lungo la dirittura principale tra mura di tufo rossastro e impalcature testimoni del terremoto, si raggiunge l’antica porta del Mellah che si affaccia sul cimitero ebraico Miâara, uno dei luoghi di maggior fascinazione dell’intera città.

Foto © Gian Piero Piretto

L’accesso è attraverso un anonimo portoncino ricavato in un più grande portale inserito in una cerchia di mura che ammette al vastissimo territorio costellato di migliaia di tombe imbiancate a calce che abbagliano sotto il cocente sole magrebino. È richiesta una donazione di 10 dirham, il corrispettivo di 1 euro, per la quale viene rilasciato debito biglietto-ricevuta. Agli uomini si chiede di indossare una kippah tra le molte a disposizione in un cestino e si viene poi lasciati soli a rapportarsi con quello spazio metafisico. Il cimitero risale al XVI secolo, le oltre 20.000 tombe sono divise in tre settori: uomini, donne e bambini. Le sepolture dei bambini sono più di 6.000 e appartengono a bimbi morti per un’epidemia di tifo nel XIX secolo. Come in molti altri sepolcreti ebraici le tumulazioni sono stratificate per sfruttare al massimo lo spazio a disposizione. Sotto ognuna delle tombe dalla sagoma così particolare ci sono almeno tre persone sepolte in locazioni e tempi diversi. Elias Canetti ne scrisse in Le voci di Marrakech:

Su questo deserto cimitero degli ebrei, al contrario, non cresce nulla. Esso è la verità stessa, un lunare paesaggio di morte. All’osservatore non importa affatto di sapere chi giace sottoterra, la cosa gli è cordialmente indifferente. Non si china e non cerca di scoprirlo. Qui sono tutti ammucchiati, come fossero macerie, e si vorrebbe scappar via in fretta, come sciacalli. È il deserto di uomini morti, sul quale non cresce più nulla, l’ultimo, estremo deserto.

Il cimitero ebraico Miâara (Foto © Gian Piero Piretto)

Lunare o assolato che sia, il paesaggio è conturbante: l’immensa distesa di pietre sepolcrali triangolari, irriverentemente dirò a foma di cioccolatino gianduiotto, è desolata ma trascinante. Le tombe sono quasi tutte anonime, prive di iscrizioni, a eccezione di quelle di rabbini o dignitari. Qualche sassolino di memoria compare qua e là nell’accecante biancore. Si procede come sospesi sui viottoli tracciati nella sabbia tra i tumuli. Tra i pochi alberi nidificano centinaia di uccelli che con il loro canto infrangono il silenzio altrimenti assoluto. Qualche tomba ha una struttura più elaborata, alcune sono addirittura a cappella, altre sfoggiano una costruzione la cui sagoma ricorda un forno. In realtà spazio dove sistemare candele accese. Prima di uscire, restituita la kippah, ci si devono lavare le mani all’apposita fontana per assecondare il rito di purificazione. Riprendendo la via centrale ed effettuando qualche minima deviazione, molte signore che incrociavano il mio percorso mi salutavano, “ça va?”, e poi sorridendo aggiungevano: “synagogue” indicando la direzione, si raggiungerà l’unico tempio rimasto operante nel quartiere.

La sinagoga di Slat el-Azama (Foto © Gian Piero Piretto)

La Sinagoga di Slat el-Azama fu costruita originariamente nel 1492 con l’arrivo degli ebrei in fuga dall’Inquisizione e vittime dell’espulsione dalla Spagna. L’attuale edificio fu invece costruito all’inizio del XX secolo. Conosciuta come la “sinagoga degli esuli” ospitò generazioni di giovani berberi convertiti al giudaismo e inviati dai villaggi della regione per imparare la Torah, prima di essere definitivamente abbandonata negli anni Sessanta del XX secolo. È stata recentemente restaurata e ora viene utilizzata per i servizi settimanali di Shabbat. Molte delle sue ex aule sono state trasformate in un museo che racconta la storia degli ebrei del Marocco e della loro cultura. Alcune famiglie ancora vi risiedono, assecondando una storica consuetudine, riparate da tende che garantiscono l’intimità delle stanze affacciate sulla bella corte in stile riad piastrellata e decorata sulle tonalità del blu. Le piastrelle riprendono il motivo della stella di Davide. La pace e il silenzio che regnano nel fresco cortile alberato sono rotti soltanto dai giochi dei bambini che corrono intorno alla fontana centrale e dal cinguettio degli uccelli. Concedersi una sosta, seduti all’ombra su una delle tante sedie a disposizione godendo della bellezza del luogo, sarà un piacere dopo aver tanto camminato. Tornati all’esterno, con una svolta a destra dopo i pochi metri percorsi nella rue Talmoud Torah, si entrerà di nuovo nella frenesia del souk su una piazzetta dotata di un paio di alberi all’ombra dei quali i tavolini di alcuni semplici caffè offriranno un gradito sollievo. Un immancabile tè alla menta, versato con acrobatica maestria fino a ottenere la debita schiuma, rinfrancherà e preparerà a nuove scoperte.

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