Mentre il vaporetto si lascia alle spalle le Fondamenta Nuove, solcando le acque calme della laguna, mi viene in mente il ponte di San Giacomo. Sottile come un capello, secondo una leggenda diffusa nell’Italia meridionale, u ponti ‘i San Jacupu sarebbe il collegamento tra il regno dei vivi e quello dei morti. Per attraversarlo, allo scoccare della mezzanotte, il giorno del decesso, l’anima del defunto deve essere particolarmente agile, vale a dire non troppo appesantita dai peccati commessi in vita. Penso a questa credenza popolare, alla separazione tra regno dei vivi e regno dei morti, perché il vaporetto mi sta portando su un’isola-cimitero. Ma anche perché fino al 1950, una volta all’anno, qui un ponte c’era per davvero. Era un ponte provvisorio realizzato con piccole imbarcazioni di legno, lungo 407 metri e largo circa 15, che nella prima settimana di novembre collegava le Fondamenta all’isola di San Michele. In quei giorni i veneziani potevano rendere visita in massa e più comodamente ai propri cari sepolti nel camposanto, attraversando la passerella senza troppo badare ai peccati commessi.
San Michele ha la forma di un quadrilatero a cui si è spezzato un angolo, vista da Venezia sembra un’enorme piattaforma galleggiante, una fortezza senza cannoni né stendardi né torri d’avvistamento, popolata di alti cipressi e sorvolata da stormi di gabbiani. Osservandola da lontano sembra quasi che l’isola-cimitero sia stata trasportata nella laguna da un altro luogo, da una città qualsiasi: le sue mura sono del tutto simili a quelle di decine di altri cimiteri che mi è capitato di vedere altrove. Con la differenza che qua, di fronte al portale d’ingresso, invece di una piazza con acciottolato, variopinti chioschi di fiori e fontanelle zampillanti, c’è il mare.
Non mi sorprende che oltre a me scendano solo tre o quattro altri passeggeri: è una splendida giornata di aprile, il sole brucia sulla pelle, la maggior parte dei turisti preferisce proseguire verso destinazioni ben più attraenti, le vicine isole di Murano e Burano. Nei luoghi di sepoltura c’è silenzio, è cosa nota, ma a San Michele il silenzio è quello di una spiaggia deserta, un silenzio contaminato appena – o forse rafforzato – dal garrito di qualche gabbiano irrequieto. Una leggera brezza marina solletica il prato verde che si distende ai lati del viale principale, sulla destra si incontra subito una schiera di lapidi di marmo che poggiano sul terreno, piuttosto vicine tra loro, molte delle quali leggermente inclinate, quasi alla ricerca della giusta posizione rispetto al sole; sulla sinistra, un ampio spazio erboso, ben curato e punteggiato di minuscole margherite bianche, separa il viale da una sfilza di croci impiantate nel cemento. Più indietro, tra i cipressi poco longilinei, svetta il campanile in bilico della chiesa di San Michele.
Non riesco a orientarmi subito, benché i campi siano suddivisi in ordine alfabetico, e per sbaglio finisco tra i colombari riservati ai preti e alle suore (gli unici colombari che incontrerò). Scorro rapidamente i volti in bianco e nero di questi uomini e donne di chiesa, cercando riparo nell’ombra dei vialetti, ma alla fine riesco a trovare i reparti greco-ortodosso ed evangelico, quelli che sto cercando, entrambi protetti da un muro di cinta che li divide l’uno dall’altro e dal resto del cimitero. All’ingresso di quello greco-ortodosso c’è una placca con su scritto “Igor Stravinsky”. Un segno, penso, che ci sono morti più morti di altri, oppure del contrario, chissà: che ci sono morti più vivi di altri. Per raggiungerla devo percorrere la stradina sterrata che taglia in mezzo il reparto: è una tomba spoglia, nome e cognome traslitterati con sistema anglosassone, Igor Stravinsky, una croce ortodossa russa incisa nel marmo, un’altra più piccola in legno lasciata da qualche visitatore. I fiori non sono molti (in ogni caso più di quelli deposti sulla tomba di sua moglie Vera, sepolta lì accanto): un mazzetto di rose gialle, un garofano rosso e qualche altra corolla appassita. Alla base della pietra tombale decine di conchiglie, sassolini e rubli a formare un maldestro ma affascinante mosaico. Il volto di Stravinskij compare su una piccola lapide sorretta da un’asticella di metallo, e vicino alla sua espressione seriosa un codice QR permette di scrivere un messaggio di tributo.
Solo pochi passi sulla ghiaia crepitante separano la tomba di Stravinskij da quella dell’amico Sergej Djagilev, il famoso impresario dei Balletti russi. Il suo piccolo monumento funebre, annerito dalle intemperie, ricorda vagamente un tempietto, o la cupola di una cattedrale in miniatura, ai suoi piedi sono stati deposti due vasetti di fiori e un cero votivo rosso. Mi avvicino per leggere meglio il nome inciso due volte a caratteri dorati: Sergej Pavlovic Djagilev in alfabeto cirillico e più sotto, di dimensioni maggiori, il nome in francese, Serge de Diaghilew. Da lontano mi era sembrato che all’interno del “tempietto” ci fosse un cumulo di sassi, del resto non è inconsueto depositarne alcuni sulle pietre sepolcrali ortodosse, ma avvicinandomi mi rendo conto che si tratta di scarpette da punta. Dal mucchio emerge una bambola vestita da ballerina che sembra stia facendo una pirouette. È mezzogiorno, nel reparto non c’è anima viva, il sole irradia il monumento funebre da dietro, donando alla bambola un colorito vivace, tanto che mi aspetto che da un momento all’altro si metta a danzare veramente in onore di Serge.
Nel cimitero evangelico, dove è sepolto Brodskij, un uomo sulla sessantina – pochi capelli bianchi raccolti in una lunga coda di cavallo, occhiali tondi e pantalone di lino – passeggia tra le tombe insieme a sua figlia. Lei avrà vent’anni, parlano russo, e mi dico che anche loro, come me, sono venuti a rendere omaggio al poeta. Il reparto evangelico è identico a quello greco-ortodosso in struttura e dimensioni: un rettangolo protetto da mura di cinta adiacente al piccolo edificio in mattoni rossi che serve da crematorio. Chissà perché, l’avevo immaginata in un angolo, la tomba Iosif Aleksandrovič Brodskij, quella che desidero vedere più di tutte, e invece è praticamente in mezzo. Padre e figlia ci passano davanti proprio mentre riesco a rintracciarla, lui si limita a dire “ah, ecco Brodskij”, e per quel poco che capisco di russo mi sembra che racconti qualcosa su di lui, ma senza particolare entusiasmo, dopodiché proseguono oltre. La lapide è più bianca delle altre. E non solo perché è evidentemente più recente: qualcuno viene di tanto in tanto a lucidare il marmo. Il suo tettuccio ricorda vagamente un accento circonflesso, offrendole una certa grazia e una monumentalità discreta. Anche qui, come sul tempietto-cattedrale di Djagilev, il nome è riportato in due lingue diverse: Iosif Brodskij in alfabeto cirillico e sotto, dopo le date di nascita e morte, Joseph Brodsky in inglese. Resto qualche minuto a osservare la tomba, e non posso fare a meno di notare che è l’unica, tra quelle che ho visto, su cui crescono in abbondanza edera e fiori.
Se Brodskij non avesse scritto una delle tante lettere all’amico Andrei Sergeev, probabilmente non sarebbe sepolto su questa isoletta, bensì dall’altra parte dell’Atlantico, a New York, dove morì il 28 gennaio 1996 a 55 anni. Though the insensate body / doesn’t care where it decays, / deprived of native clay it doesn’t mind rotting / in a silly Lombard valley. / It’s still the native continent, / the native worms. / Stravinsky rests in peace in San Michele. Questi pochi versi, a quanto pare, convinsero la moglie Maria Sozzani a far trasportare la sua salma dagli Stati Uniti a Venezia. Nessun ritorno nella città natale, Leningrado, città che in un certo senso non esisteva più, avendo nel frattempo cambiato nome e Stato; nessun ritorno post mortem in una patria da cui era fuggito nel 1972, a 32 anni, e nella quale non aveva più rimesso piede, una patria che non concesse mai ai suoi genitori il loro desiderio più grande: un visto per riabbracciarlo prima che si spegnessero entrambi in quella “stanza e mezzo” al civico 24 di Litejnyj prospekt in cui vissero tutti insieme. Così ora Iosif Aleksandrovič Brodskij riposa nel cimitero di San Michele in Isola, un cimitero in cui regna il silenzio di una spiaggia deserta, sorvolato da gabbiani irrequieti e popolato di cipressi poco longilinei. Fuori, oltre il muro di mattoni, c’è il mare della laguna, e più in là, a poche centinaia di metri, la città-pesce di Venezia, che lui amò e frequentò, esclusivamente d’inverno, per vent’anni.
Esco dal reparto evangelico, lasciando padre e figlia conversare in russo sulla tomba di Ezra Pound, alla quale sembrano decisamente più interessati. Torno indietro senza perdermi tra i colombari di preti e suore. Percorrendo il viale principale, scorgo in lontananza il mare della laguna spalancarsi oltre il portale d’ingresso. Da quella prospettiva pare che basti un passo per cadere in acqua, invece di fronte c’è la banchina galleggiante che serve da fermata del vaporetto. Mi siedo lì, sulla piattaforma che ondeggia leggermente, in compagnia di quattro o cinque turisti americani e tedeschi accaldati quanto me, e ripenso al ponte di San Giacomo, quasi lo vedo, sottile come un capello, correre dritto sul filo dell’acqua.