Da qui il mare di Marsiglia non lo vedi e non lo senti. Le scogliere selvagge delle Calanques sono lontane come un pianeta alieno, non si sentono i motoscafi fighetti nel porto, né i sandali sulle strade lastricate del Panier. Non si sente l’odore acido di frutta troppo matura dei mercati rionali di Noailles, né quello del fior d’arancio delle navettes che esce a ondate dei forni del centro, incartate eleganti per il pranzo dai suoceri. Non si vede la molle indolenza guascona dei marsigliesi. Eppure, se chiudi gli occhi, il vento e l’odore dei pini marittimi ti riportano lì.
La prima persona che si incontra sul vialetto nel parco non è una editor di una rivista di moda, né una docente universitaria impegnata. È una vecchina ricurva come un olivo fuori posto, che avanza insicura reggendosi a un deambulatore. In questo minuscolo scampolo di macchia mediterranea appena defilato da Boulevard Michelet – un’arteria alberata, tra concessionarie d’auto e villette, avanzi o imitazioni della campagna che un tempo dominava il quartiere – alle spalle della vecchina-olivo e sotto un cielo terso come solo le città di mare possono averlo, si staglia il blocco di cemento dell’Unité d’Habitation.
Un blocco di cemento grezzo, che i tocchi di colore dei balconi riescono a malapena a ingentilire. Un parallelepipedo alto 56 metri, lungo 137 in cui single, nuclei con due bambini o famiglie numerose possono trovare l’appartamento per le loro esigenze. Oggi tra loro, accanto agli anziani inquilini di prima generazione ci sono borghesi alla moda. Tutti trovano posto tra le 23 diverse tipologie di alloggio accomunate dall’unità minima, il modulor, sezione aurea del Novecento. A spiegarti che cosa sia la sezione è una figurina umana a bassorilievo sulla facciata est che dà su Boulevard Michelet ed è la base di partenza per tutte le misure: 2,26 metri di altezza degli appartamenti singoli, 4,52 i duplex. Ma dentro c’è anche un hotel, gli appartamenti si vendono a 4.000 euro al metro quadro e su Airbnb sono al completo da mesi.
La mente e la matita dietro tutto questo, ad anni luce dalla libreria di design e dalla boutique di gioielli del sesto piano, il celebre e celebrato Le Corbusier la soprannominò Cité Radieuse: nelle sue intenzioni, a spiccare doveva essere era la doppia esposizione dell’edificio alla luce solare, sia a oriente che a occidente, effetto non tanto della collocazione nello spazio, ma della disposizione degli appartamenti, incastrati l’uno sull’altro come pezzi di Lego per arrivare ad affacciarsi su entrambi i lati. Nelle intenzioni, doveva costruire altri edifici identici per alloggiare un totale di 40mila persone sulle colline attorno a Marsiglia. L’amministrazione cittadina, vedendo moltiplicarsi i costi, preferì contenere l’estro strabordante di Le Corbusier, che dovette rinunciare agli altri progetti. E così, quando, negli anni Cinquanta, dopo una costruzione protratta per sei anni contro i due preventivati, il mostruoso condominio fu pronto per accogliere i primi inquilini, il nome di Cité Radieuse deve essere suonato come una beffa.
Nessuno voleva venire ad abitarci nel 1952. Nonostante non fosse del tutto a norma, con i balconi troppo bassi – tanto che oggi dove vivono bambini e animali si riconoscono dalle reti di protezione sul terrazzo – e con qualche errore di calcolo, camuffato alla bell’e meglio, la Cité Radieuse era uno scrigno di modernità mai vista, a disposizione di una titubante classe lavoratrice. Una coniugazione anomala di intimità e socialità, in cui il senso pratico è espressione cementizia di un’utopia che voleva dare alle classi popolari tutti i comfort e gli strumenti per opporsi all’alienazione dei tempi moderni. Ci volle tempo per superare le resistenze: molti marsigliesi, con lo sguardo abituato ai balconi Art Nouveau del centro, non vedevano motivi per trasferirsi al capolinea dei trasporti urbani, in un blocco di cemento da cui Notre Dame de la Garde è lontano anni luce, come le chiacchiere di fine giornata davanti alle palazzine fatiscenti della vecchia Marsiglia, lontano dalle osterie del pastis serale e della partita la domenica pomeriggio. Lontano dal gruppo, dagli altri, dalla città.
A guardare oggi la Cité Radieuse con i suoi abitanti borghesi, è chiaro che le cose sono parecchio cambiate. Forse la comodità della cucina minimalista ma completa e del primo supermercato della città proprio sotto (o sopra) casa contagiò a poco a poco le persone. Forse fu la luce immensa dalle vetrate oppure i negozi moderni, la scuola e la piscina sul tetto compensarono la paura di perdere i legami sociali e di non vedere la bellezza sfacciata del centro storico e del mare di Marsiglia. L’Unité d’Habitation non fu che un pezzo, forse il primo, di quel processo di frammentazione del sociale contemporaneo che per molti ha significato lo sfilacciamento dei legami, in cui la tv ha sostituito le fiabe davanti al fuoco e le partite di carte coi vicini e la città ha risucchiato dalle campagne i contadini per risputarli lontani gli uni dagli altri. Ma poi ci si abitua a tutto, ci si riscopre cittadini moderni e chi si è trasferito nella Cité Radieuse ha forse imparato, un po’ per volta, a creare nuovi legami, accorgendosi che quella in fondo era, forse, come voleva Le Corbusier, una piccola città verticale in cui essere parte di qualcosa.
Oggi un’associazione di inquilini, coesa e attiva, organizza eventi, aperitivi, cineforum. Ogni anno i residenti sono chiamati a votare per consentire o negare ai turisti l’accesso a questo monumento che incarna i paradossi dell’urbanistica contemporanea (per la cronaca: continua a vincere il sì, ma solo per una manciata di voti). L’associazione tiene vivo, in fondo, il parallelepipedo di cemento come all’architetto sarebbe piaciuto vederlo, impedendogli di diventare il guscio vuoto della mercificazione di Marsiglia, un sacrificio sull’altare della riqualificazione urbana.
“Qui la gente non ha tanta voglia di parlare” dice Marine, la guida, anche se non c’è bisogno di dirlo. Te ne accorgi subito: davanti all’ascensore ti salutano per educazione, ma a denti stretti, perché i turisti li sopportano con un fastidio manifesto, che non si disturba a sorridere alle famiglie troppo rumorose, ai bambini troppo piccoli per apprezzare l’architettura brutalista, al seguito di genitori trascinati da un trafiletto sulla Lonely Planet, alle giovani coppie in Birkenstock col diploma da designer in tasca. Tutti, invariabilmente, passano al vaglio dello sguardo impenetrabile delle signore con la sporta della spesa; il loro contegno riservato e torvo è il riflesso umano dei corridoi in cui l’umidità e la luce liquida delle vetrate sono quelle dell’atrio di una piscina comunale, ma vintage, elegante e dimessa. Non si è mai visto un formicaio tanto quieto. Sarà la penombra umida che domina gli ambienti comuni, sarà il rispetto per gli spazi dell’altro che vivere in un luogo così impone o sarà solo che l’edificio è enorme e i volumi dilatati, ma l’affollamento che ci si aspetta qui non c’è.
E, se accetti gli sguardi torvi riservati alle visite guidate, hai la possibilità di entrare in un appartamento, quello del custode e tuttofare, immobile nel tempo. È un duplex dalla cucina verde geometrica, piccolissima e organizzata, rimasto esattamente come concepito dall’architetto. Il caldo di luglio è da togliere il fiato, perché un’intera parete è una vetrata di quattro metri, battuta dal sole, ma l’eccitazione di sbirciare nella vita degli altri, affacciandoti in un’epoca che non è la tua, fa dimenticare sudore e fiato corto. La razionalità, qui, è la cifra stilistica, la funzionalità la regola, con vette di genio come il sistema di aerazione che attraversa in altezza tutto l’edificio per sboccare nel cassetto della verdura, che così rimane fresca anche fuori dal frigorifero, comunque troppo piccolo. Fu Charlotte Perriand, bistrattata collaboratrice di Le Corbusier, ispirata ai viaggi in Giappone, a disegnare la cucina; è in legno, come pure il parquet in quercia scricchiolante e la scala che porta al piano di sopra. Tutti questi elementi, che paiono presi dal ponte di una nave, producono uno straniamento rispetto alla vista dalle vetrate, sul verde del giardino e sui condomini grigi tutt’attorno. La modernità del sistema di spesa a domicilio – da ricevere direttamente in un’apposita cassetta – e l’arredamento dal gusto futuristico anni Sessanta fanno galleggiare fuori dal tempo. E parte di questo effetto straniante sopravvive in tutto il complesso, perché le personalizzazioni concesse sono limitate: si tratta comunque di un patrimonio protetto.
Al tempo, il futuro passò per la novità dell’intimità – genitori e figli, qui, dormivano ciascuno nella propria stanza fin dagli anni Quaranta – e con essa l’igiene. Luce e aria, le ossessioni del tardo Novecento, furono i primi inquilini, in un’epoca in cui la maggior parte dei francesi non aveva nemmeno l’acqua corrente in casa, e in cui l’igiene a Marsiglia rimase un problema grave fino a tutti gli anni Settanta. Paradossalmente proprio qui, dove gli appartamenti sono infilati l’uno sull’altro come un alveare, ognuno trova la propria privacy, pur in una città verticale da dove è virtualmente possibile non uscire mai.
Al sesto piano, un ampio corridoio – Le Corbousier lo chiamava rue, strada, perché il suo era un “villaggio verticale” e non un condominio né tantomeno un puzzle in tre dimensioni – ospitava il supermercato (si dice il primo self service moderno di Francia) e, dal 1960, i negozi. I negozi hanno via via chiuso, oggi sostituiti da una libreria fighetta per patiti d’architettura e da uno spazio polifunzionale usato per lo più per lezioni di pilates. Restano alcuni ambulatori medici, diversi uffici, la biblioteca e la scuola per l’infanzia, che ricordano che questo non è un museo delle utopie fallite, ma un luogo vivo. Un luogo in cui inquilini della prima ora – forse la stessa vecchina-olivo che hai visto arrivando, chissà – vivono fianco a fianco con avvocati e giornalisti per i quali il lusso di abitare in un pezzo di storia dell’architettura supera le finiture non a norma e il rischio d’incendi, l’ultimo nel 2012.
Quel che ne risulta è un mix eclettico: quando hai visto abbastanza di questo intricato intreccio dei paradossi socio-abitativi, scendi di nuovo al piano terra ed esci. Fuori, il vento è piacevolissimo; l’erba è ingiallita dalla siccità che da anni soffoca ogni estate il Midi. Il frastuono delle cicale sovrasta il traffico di boulevard Michelet con il suo festoso canto è l’unico indizio di campagna che resta, ma è così potente da trasportare altrove. Uscire dal piccolo parco che circonda la Cité Radieuse significa essere catapultati violentemente in una Marsiglia parallela, in cui il cemento è orizzontale invece che verticale, l’umanità si condensa negli scompartimenti umidi del métro e folle eccitate in fermento si ammassano davanti al Velodrome, lo stadio con annesso centro commerciale.
Ed è proprio qui, una volta usciti dalla bolla fuori dal tempo della Cité Radieuse, che torna chiara la sua assurdità, il suo essere un emblema di gentrificazione in una città che la gentrificazione la combatte e la subisce con rabbia, dai tempi della Capitale Europea della Cultura in poi. Qui le contraddizioni del vivere urbano non cercano nemmeno di nascondersi: per Marsiglia, città radiosa di attivismo radicale, la Cité Radieuse è il contrappasso perfetto.