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Prosfygika, le case dei profughi di Atene

È come mi avevano detto, faccio meno di venti passi tra gli edifici di Prosfygika su via Alexandras e qualcuno mi avvicina. Non è ostile ma guardingo sì e mi chiede chi sono e che cerco. Non chi, cosa. Lì per lì lo noto appena ma più tardi ne avrò conferma: nessuno cerca qualcuno qui. Chi viene da fuori percepisce quasi sempre gli abitanti di Prosfygika come una massa indistinta. Mi presento e il tono cambia immediatamente. Alexi mi sorride, si rilassa, mi offre un bicchiere d’acqua. Mi chiede di non fotografare le persone, gli interni, limitarmi a inquadrature generali o dettagli esterni. Annuisco ma capisco che non basta, perciò prometto. E mostro il mio telefono sgangherato: non sono qui per fotografare, voglio ascoltare la loro storia. Sorride di nuovo, con una mano e un mezzo inchino mi fa strada.

Di guai con i giornalisti ne hanno avuti tanti, prosegue. Spesso non dicono di esserlo perché sanno di non essere bene accetti e la ragione è che quasi sempre sono filogovernativi. E il governo greco, quale che sia l’orientamento politico al potere, questo posto vuole cancellarlo da decenni. Ci ha provato molte volte e in molti modi. Come nel 2004, durante le Olimpiadi. Gli edifici scrostati deturpavano la città tirata a lucido e sono stati coperti da enormi teloni bianchi. Eppure su queste mura c’è parte della storia della città. Su alcune facciate si scorgono ancora i segni dei proiettili che nel dicembre 1944 gli inglesi, alleati del governo di destra, spararono dal Licabetto per stanare i partigiani antifascisti che avevano trovato rifugio qui.

Foto © Sara Mostaccio

Siamo nel quartiere di Ambelokipi, una parola che significa vigneti. Qui un tempo era tutto campi tra vigne, frutteti e orti che approvvigionavano la città. Arrivo con la linea 3 della metro, la stessa che collega il centro di Atene all’aeroporto di Spata. Dalla fermata sono tre minuti a piedi lungo via Alexandras. Sulla sinistra si staglia lo stadio del Panathinaikos coperto da graffiti. Domina il verde, il colore della squadra. Sta esattamente di fronte agli otto palazzi color ocra conosciuti come Prosfygika, case costruite per i profughi d’Asia Minore tra il 1933 e il 1936. Dieci anni prima un milione e mezzo di persone era giunto in Grecia da Oriente a seguito della disfatta dell’esercito greco in Asia Minore, culminata con l’incendio di Smirne del 1922. I greci che da secoli abitavano le coste d’Anatolia, molti dei quali non parlavano neanche greco, furono costretti ad abbandonare le loro case. Lo aveva sancito il trattato di Losanna che regolò lo scambio di popolazioni tra Grecia e Turchia. Una grossa percentuale dei profughi giunti in Grecia approdò al Pireo e sciamò ad Atene modificando per sempre lo scenario urbano e il tessuto sociale della città. La massa di persone fu inizialmente accolta in scuole, magazzini, chiese, teatri. Ma non era sufficiente. Ovunque sorsero baracche improvvisate costruite con cartone, assi di legno, lamiere. Sovraffollamento, mancanza di acqua potabile, diffusione di malattie e povertà assoluta posero al governo greco un problema al quale non era preparato e a cui rispose con ritardo. Solo dieci anni dopo cominciò a investire nell’edilizia sociale per offrire alla famiglie rifugiate una prospettiva più dignitosa.

Le case di Prosfygika furono edificate a questo scopo. Il progetto iniziale prevedeva di costruire sul punto dove era sorto un campo per rifugiati, ma quel terreno era già stato destinato ai tifosi del Panathinaikos. Da tempo chiedevano uno spazio per lo stadio e guardavano con ostilità a quelle persone che occupavano lo spazio promesso. Ci furono tafferugli. L’ebbero vinta i tifosi. Lo stadio fu eretto dove si trova adesso e le case di Prosfygika furono costruite dall’altro lato della strada. Oggi contrastano con il quartiere intorno, diventato un’elegante area residenziale, e sono strette tra la corte suprema da un lato e la sede centrale della polizia dall’altro, due simboli di quel potere che cerca di cancellare questo luogo.

Foto © Sara Mostaccio

Nonostante tutto gli edifici appaiono straordinariamente ordinati. Non a caso furono tra i pochi esempi di pianificazione urbanistica in una città cresciuta spesso in maniera anarchica. Costruiti in stile Bauhaus, su progetto dell’architetto Kimon Laskaris e dell’ingegnere civile Dimitrios Kyriakos, contano 228 appartementi di circa 50 mq l’uno. Spartani ma dotati di tutto: ogni appartamento ha soggiorno, camera da letto, bagno e cucina e condivide con gli altri spazi comuni come lavanderie e terrazze. Nessuna decorazione se si eccettua il colore dell’intonaco, un ocra vivo che tuttora si fa notare, benché sia sbiadito dal tempo. Erano stati ideati per essere efficienti e rispondere a un’emergenza abitativa e offrirono a oltre 200 famiglie l’occasione di una vita decorosa.

Cammino per le vie interne del quartiere – a ogni angolo leggo: Degleri, Trichonidos, Koronià, Dimitsanas. Non sento voci, non vedo gente, eppure qui abitano quasi 500 persone. I segni che questo posto è popolato sono numerosi: panni stesi al sole, una bicicletta su un balcone, una parabola in bilico sulla ringhiera, le persiane mezze aperte, un tappeto che sporge dalla terrazza in attesa che qualcuno arrivi a batterlo. Fino agli anni Novanta questo era un vitale quartiere operaio ma un nuovo benessere permise a chi vi era cresciuto di trasferirsi in appartamenti più spaziosi e moderni, lasciando le piccole case di Prosfygika. Da quel momento iniziarono a essere occupate da chi rivendicava il diritto alla casa. Gli allacci di acqua e luce in molti casi sono abusivi e spesso vengono interrotti.

Oggi qui abitano gli eredi di alcuni residenti storici, i pochi rimasti, ma anche immigrati, rifugiati da zone di guerra, richiedenti asilo e greci che durante la dura crisi economica hanno perso lavoro,  casa, futuro. Secondo Nikos Pilos, fotoreporter che ha raccontato la vita di Prosfygika, qui convivono oltre 30 nazionalità diverse. Racconta di una casa condivisa da tre donne cristiane provenienti dal Congo e un musulmano del Burkina Faso senza che si producano attriti. Qui, senza altro sforzo che quello della buona volontà, si verifica l’integrazione che lo stato non è capace di produrre.

Foto © Sara Mostaccio

Dal 2010 gli abitanti hanno dato vita a un collettivo per organizzare sia la vita quotidiana del quartiere che la lotta politica. Si chiama SYKAPRO, acronimo per Sinelefsi Katalipsion Prosfygikon, Assemblea degli Occupanti di Prosfygika. In oltre dieci anni di attività SYKAPRO ha offerto una casa a chi non l’aveva e ha costruito una rete comunitaria che comprende un panificio interno, una scuola, una biblioteca multilingue, un sistema di raccolta di cibo nei mercati locali e un gruppo di liberazione femminile. Offre anche assistenza sanitaria e legale a chi ne ha bisogno e ha creato un centro sociale aperto a chiunque necessiti di un posto dove riunirsi. È lì che si tengono anche le assemblee della comunità. Mi invitano a tornare, lunedì alle 15. Ci sarò.

Mi perdo subito in una babele di lingue. Distinguo greco, turco, arabo, inglese e russo, ma forse è bulgaro. Poi c’è una quantità di lingue per me inaccessibili, mi pare di individuare il farsi ma non ne sono sicura. Il greco è la lingua franca, qui tutti la imparano grazie ai corsi di lingua offerti dalla comunità. C’è fermento in assemblea, questo lunedì, o così sembra a me. Poi Shamina, siriana, mi racconta in un greco cauto ma corretto che è sempre così perché tutti sono chiamati a partecipare e nessuno si tira indietro. Tutti i punti di vista vengono accolti e le decisioni non si prendono per votazione ma per consenso, discutendo le ragioni di ciascuno a prescindere da provenienza, visione politica, religione. All’ordine del giorno ci sono la cena collettiva del mercoledì sera, i turni per la raccolta del cibo al mercato del giovedì e la partecipazione a una manifestazione a sostegno del quartiere di Exarcheia che si batte contro la costruzione di una fermata della metropolitana sulla sua piazza.

Foto © Sara Mostaccio

SYKAPRO si occupa della gestione della vita quotidiana: dall’assicurare un pasto a chi non ha un lavoro perché è senza documenti alle cure mediche di chi è malato e non può accedere al sistema sanitario. Un bulgaro che mi chiede di non dire il suo nome, perché non ha documenti in regola, mi racconta che una sera ha chiamato un’ambulanza per via di un incidente. Non è mai arrivata. “Quando dici dove vivi, diventi invisibile”. Ma il lavoro di SYKAPRO è anche politico. Si oppone alla gentrificazione, al capitalismo, alla violenza della polizia, a povertà e sfruttamento. Qui immagina un futuro diverso, orizzontale e paritario, che non depredi le persone della loro dignità o addirittura dell’identità. Da queste parti la polizia si presenta spesso, non di rado con un pretesto. Durante un processo ad alcuni membri del partito di estrema destra Alba Dorata, nel 2016, i neonazisti approfittavano della situazione per provocare scaramucce con gli abitanti. Il culmine si ebbe il 31 ottobre quando i poliziotti invasero il quartiere in assetto anti-sommossa. Gli scontri durarono ore. Dopo questi eventi fu deciso che i membri di Alba Dorata sarebbero entrati in tribunale da un ingresso secondario. A novembre 2022 è successo qualcosa di simile quando la polizia ha fatto irruzione nel quartiere per arrestare Kostas Dimalexis. E altri 79 abitanti che hanno tentato di difenderlo.

“A questi soprusi siamo abituati”, mi dice con un sorriso amaro Alexi, “ma non per questo rassegnati”. Sotto l’amarezza c’è una fierezza che mi toglie le parole. Qui si lotta per il diritto di esistere. E non da oggi. Gli abitanti di Prosfygika hanno dovuto fare i conti con numerosi progetti di demolizione, nel corso del tempo. Già sotto il regime dei colonnelli era stato approvato un piano per sfrattare gli abitanti e radere al suolo il quartiere per costruire un tribunale. Non fu mai avviato. Al principio degli anni Duemila i piani erano mutati e cambiavano in continuazione: un parcheggio, un parco verde, un parco divertimenti. Nessuno però parlava di dove sarebbero andati a finire gli abitanti, regolari e non. Nel frattempo, nell’ombra, una società immobiliare statale acquistava una casa dietro l’altra offrendo ai proprietari cifre irrisorie sotto minaccia di esproprio. Arrivò a possederne 177 prima che l’inganno venisse alla luce. L’obiettivo era svuotarle per demolirle. 51 proprietari però rifiutarono di vendere e si finì in tribunale ottenendo nel 2008 una delibera del governo greco che dichiarava questi edifici di interesse storico, architettonico e sociale. Non si possono più buttare giù. Ristrutturare però sì.

Foto © Sara Mostaccio

Dal 2019 esiste un progetto di risanamento del quartiere che prevede – ancora! – lo sfratto di tutti gli abitanti. Pur essendo stato messo a punto nel dettaglio e approvato dagli organi competenti, anche questo piano si era arenato, stavolta per mancanza di fondi. I 12 milioni di euro necessari però sono stati trovati a fine 2022 grazie al Recovery Fund europeo. Serviranno tre anni per portarlo a compimento. Secondo i piani di Anaplasi Athina, la società a capo del progetto, la maggior parte degli appartamenti sarà destinata nuovamente all’edilizia sociale. Chi ci abita non deve far altro che iscriversi alle liste per l’assegnazione di una casa. Peccato che molte di queste persone siano rifugiate senza una posizione in regola. Parte delle case sarà poi destinata a studenti senza reddito, beneficiari del sussidio di affitto, parenti dei degenti del vicino ospedale Agios Savvas. Uno degli edifici sarà destinato a un museo della memoria dell’Asia Minore e alla storia dei rifugiati. E i rifugiati di oggi? Finiranno di nuovo in strada.

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