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Il fascino discreto della Bassa

Quando uno si mette in testa di voler andare a zonzo intorno al Po, per forza di cosa si trova ad avere a che fare con i ponti. Per esempio, nella sezione centrale, diciamo tra Mantova e Reggio Emilia, di quello che a scuola insegnano essere il più lungo fiume italiano c’è un ponte proprio all’inizio, tra Borgoforte e Suzzara. È in cemento, non bello ma funzionale, non certo iconico, unisce provincia di Mantova con provincia di Mantova. E c’è un ponte alla fine, tra Ficarolo e Stellata, praticamente in Veneto, piuttosto brutto anche quello. In mezzo ci sono tre ponti: a San Benedetto (ma ne stanno costruendo uno nuovo la cui struttura immensa, che per ora si riduce a piloni di cemento dentro l’acqua, affiancherà quello vecchio), tra Revere e Ostiglia, e a Sermide. C’è anche un grande ponte autostradale, l’attraversamento dell’A22, ma quello serve solo a chi ha fretta di arrivare e non ripone alcuna attenzione verso il territorio, questo territorio che tutti attraversano ma pochi osservano. 

Per esempio, questi necessari ponti sul Po, quando ci sali scopri che sono incredibilmente lunghi: non 300, 500 metri, come l’alveo del fiume quando c’è acqua. Ma due, tre, quattro chilometri come lo spazio della golena, la fascia di sicurezza da argine maestro ad argine maestro. E se li guardi sulla mappa mica te ne rendi conto, pensi che sia un ponte e zac, sei dall’altro lato.  

Foto © Tino Mantarro

Che poi, in questo angolo del Po mantovano, dove la Lombardia si fa via via più stretta ed entra a cuneo tra Veneto ed Emilia, forse sarebbe meglio muoversi senza mappe, perdendosi e basta. Anzi, bisogna proprio silenziare il navigatore, ignorare i suoi consigli basati sulla logica del risparmio di tempo e chilometri, e piuttosto seguire l’estro delle strade di campagna, più piccole sono meglio è. Sarà più facile imbattersi in frammenti del tempo, dove tutto sembra un avamposto di colonizzatori o una briciola del passato, sopravvivenze di un’Italia di trenta, quarant’anni fa. Trattorie con parcheggi nell’aia, un’infilata di bar che si chiamano tutti Bar Sport e sono (quasi) tutti chiusi, magazzini del grano in mattoni e silos probabilmente vuoti. E ti aspetti che prima o poi spuntino quelle balere della bassa padana che cantava Battiato, con le coppie di anziani che ballano al ritmo di sette ottavi.  Paesi dai nomi affascinanti – Quistello, Quingentole, Sabbioni, Fienili Savaia, La Rotta, Conventino, Malpasso e Sustinente – che spesso hanno una sola chiesa, un solo bar, una sola farmacia e un rivenditore di prodotti agricoli, perché intorno è davvero tutta campagna. Campagne vuote di gente che lavora, perché oggi tutto si fa col trattore e la manodopera ormai è relativa. Pochi posti per dormire, molti benzinai con bar e sedie di plastica all’ombra della copertura, sempre popolati di persone posizionate in modo strategico, come pedine della dama, a guardare chi transita, perché oggettivamente che altro vuoi fare qui? Canali a bizzeffe, sempre ricchi d’acqua a differenza del Po, fattorie basse e compatte, quasi tozze, spesso male in arnese. E poi campi, campi e ancora campi, a perdita d’occhio. Campi di grano, di mais, di meloni, di soia. Che uno riconosce non perché sa distinguere le piantine, ma perché lungo le strade ci sono contadini che vendono a cassette i frutti di tanto lavoro, con cartelli alla buona che segnalano il prezzo al chilo, decisamente basso. Mucche non se ne vedono, perché nella bassa mantovana, sopra e sotto il Po, è zona di porcilaie e neanche i maiali li vedi, ma li senti. Al naso.

Foto © Tino Mantarro

Scriveva Gianni Celati nel suo viaggio verso la foce: «Sono zone così piatte e uniformi che tutto compare ad altezza occhi senza orizzonte, si sente nostalgia di un punto un po’ sopraelevato per guardarsi intorno». E allora la cosa migliore che si può fare girando per queste terre è montare sulla strada che corre sopra l’argine maestro, avendo cura di non supera i 30 all’ora: ci sono i ciclisti ma anche tanti locali che sul far della sera ci passeggiano. Da lì avvistare i campanili, o le centrali elettriche – di Ostiglia, di Sermide – le cui ciminiere vestite di bianco e rosso sono i veri segnavia di questo tratto di fiume. In mezzo c’è questo paesaggio di pianura, così vasto e inusuale per l’Italia così stretta e costipata. Alle volte ti guardi intorno e arrivato qui, dove la pianura Padana si allarga a dismisura, non hai riferimenti, perché deve essere davvero sereno per vedere il profilo delle Alpi e degli Appennini ai due opposti della tela padana. Oltre al paesaggio ci sono i paesi, certo. C’è Borgoforte, cresciuto a guardia del fiume che qui una volta aveva fortificazioni da entrambe i lati, e oggi conserva solo un forte. C’è Suzzara, che dei paesi della zona è decisamente il più grande (20 mila abitanti), ha una torre merlata e una ricca collezione civica di arte contemporanea. E poi Gonzaga e Pegognaga, ma soprattutto San Benedetto Po, cresciuta intorno alla sua abbazia dedicata a San Polirone. Abbazia che controllò il territorio attraverso decine di pievi, molte volute da Matilde di Canossa, come quella di Santa Croce, vicino Sermide, o la parrocchiale dell’Assunta, a Felonica, oppure la pieve di Coriano, piacevole interruzione romanica nel paesaggio malamente segnato dal massiccio ospedale di zona. E proseguendo a favore di corrente si arriva a Revere, che ha una superba piazza con un imponente torrione che fronteggia il palazzo ducale, tutto dirimpetto a Ostiglia, a lungo confine con Venezia e oggi dominata dalla centrale. E poi ancora verso Borgofranco sul Po, che a voler credere al cartello turistico messo all’ingresso è la capitale del tartufo bianco, che si raccoglie da qui a Sermide. Ancora un passo e si entra in provincia di Ferrara, a Stellata che ha una possente Rocca trecentesca da cui un tempo partiva una catena di 600 anelli di ferro che arrivava sull’altra sponda, a Ficarolo, in provincia di Rovigo, sbarrando il passo a mercanti e nemici. E sembra una di quelle storie che ti raccontano le guide turistiche ma mai nessuno l’ha verificata, una storia mitica diventata reale a forza di ripeterla.

Foto © Tino Mantarro

E mentre guidi – se scendi dall’argine e ti perdi nei campi seguendo la logica dei cartelli – è un continuo incrocio di passaggi a livello della linea Ferrara-Suzzara. Piccole casupole bianche ormai disabitate, sulla facciata hanno indicato il loro numero progressivo e la relativa distanza da Suzzara. Costruita nel 1888, gestita dalla Regione Emilia Romagna, la ferrovia funziona ancora con un unico binario che segue da lontano l’argine del Po. In parte è elettrificata, da Ferrara a Poggio Rusco, ma per il resto in questo pezzo ignoto di pianura Padana si addentra nella campagna con la spinta del gasolio. In estate, raccontano, era percorsa dai “treni del mare”, che dai capoluoghi della provincia lombarda andavano in riviera, fino a Pesaro. Oggi veder spuntare questo treno allegro e solitario nei campi di mais, sentirlo fischiare a ogni passaggio a livello è un diversivo nel paesaggio lunare e solitario della Bassa, che poi chissà se si chiama davvero così.

Foto © Tino Mantarro

E allora uno mentre guida si chiede se capirà davvero qualcosa di queste inusuali terre lombarde e venete. Forse no, non capirà nulla di nulla, perché per capire non basta un giro in macchina, bisogna parlare con le persone, e trovare quelle giuste, quelle che sanno leggere e interpretare il paesaggio, le sue stratificazioni storiche, i suoi cambiamenti geografici ed umani. Però pazienza, mica si deve sempre capire tutto quando si viaggia. Alle volte basta farsi una bella impressione di un posto e lasciarsi affascinare da queste ipnotiche terre del Po.

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