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Imparare a scrivere “Reykjavík”

Reijkiavik, Reikiavik, Rekjavik, Reykjavik. Anche solo scrivere il nome della capitale più a nord del mondo è una sfida, quindi d’ora in avanti sarà solo R. oppure CdI (Capitale d’Islanda). I libri di storia dicono che sia stata fondata intorno all’870 d.C. da Ingolfur Amarson dopo un rituale vichingo, di certo molti dei suoi attuali cittadini discendono da lui. Sono circa 130mila e considerando che il mio Municipio a Milano ne conta 190mila, dopo poche ore mi sembra già di conoscerli tutti. Mi sento talmente in confidenza che appena ne incontro uno gli chiedo se sono tutti parenti e mi racconta una cosa che mi dà l’idea di come si vive a certe latitudini. Mi spiega che a R. Tinder non funziona un granché. Non capisco dove voglia arrivare ma lo lascio parlare: pare che i cittadini di R. preferiscano consultare l’Isledingabok, il libro degli avi. Immagino subito un polveroso volumone in pergamena aggiornato da monaci trappisti amanuensi e invece lui sfodera un cellulare e apre il sito che è la versione digitale del libro. Metti che sei in un locale, ti piace una persona, ci scambi due chiacchiere, vorresti magari proseguire la serata altrove, ma prima fai un controllo perché, anche se in tutta l’Islanda gli abitanti sono ben 366mila, le probabilità che i gradi di parentela siano stretti sono altissime. Fa la prova inserendo il vero nome di Björk e in effetti ha un leggero legame da parte di madre con la cantante, che su una scala da parente alla lontana a cugino di primo grado la posiziona abbastanza distante da non creare imbarazzo nel caso volesse chiederle un autografo. Il sito non nasce per il dating ma per ricerche sulla genetica e gli islandesi lo usano anche così perché a condizioni estreme i rimedi devono essere smart

Foto © Barbara Gallucci

Condizioni estreme come il sole nel cuore della notte che incasina subito il metabolismo e scombina i ritmi veglia/sonno/cibo anche ai locals che fanno jogging a mezzanotte lungo la baia. Forse hanno appena scoperto di essere usciti a cena con un parente quasi stretto e se la fanno passare così. Di modi per intrattenersi ne escogitano parecchi e altrettanti glieli fornisce madre natura che li ha fatti nascere in un contesto tra i più imprevedibili (vedi i geyser), instabili (vedi il vulcano Eyjafjöll che bloccò il mondo nel 2010), gelidi (vedi i ghiacciai) e selvaggi (vai e vedi). E se i cittadini sono pochi, la fauna locale rimpingua i numeri grazie ai celebri puffin, ovvero le pulcinelle di mare, buffi uccelli dal becco arancione, e ai delfini e alle balene che popolano le acque di tutta l’Islanda. Una gita in barca per osservarli è una via di mezzo tra una caccia al tesoro e una prova di resistenza al vento che schiaffeggia i pochi centimetri di pelle scoperti, regalando quelle gote rosse tipicamente nordiche che caratterizzano tutti gli abitanti di R. 

Gli islandesi per ritemprarsi hanno numerose opzioni. La scena gastronomica si è presa la briga di migliorare e andare oltre le aringhe, ma il ricordo culinario che mi è rimasto più impresso è il baracchino degli hot dog che si chiama Baejarins Betzu Pylsur e si trova in pieno centro (basta seguire il profumo e individuare la fila di persone in coda). Diciamolo subito: uno non basta ma due è il numero perfetto e pare che anche Bill Clinton in visita presidenziale abbia apprezzato (prima dell’infarto). Non sappiamo invece se sia stato uno schizzo di ketchup a sugellare il celebre incontro svoltosi qui nel 1986 tra Ronald Reagan e Michail Gorbačëv. A ospitare il vertice che diede inizio al dialogo tra i due blocchi e condusse alla fine della Guerra fredda fu un edificio di legno bianco sul lungomare, prima residenza diplomatica, poi casa privata e oggi luogo simbolo senza troppi fronzoli. Fronzoli che non si addicono allo spirito vichingo originario che, sebbene si sia addolcito ed emancipato nel corso dei secoli, fa mantenere al cittadino di R. un certo distacco. Soprattutto dal turista, fonte di reddito ma anche causa di improvvise ondate di flussi barbarici di individui vestiti con colori fluo che corrono verso le imbarcazioni per il whale watching. Nessuno di loro si dirige verso un altro molo poco distante dove si trova Marshall House, l’edificio che ospita lo studio di Olafur Elliasson, artista contemporaneo di origini danesi-islandesi. Eliasson è noto per le sue installazioni monumentali che focalizzano l’attenzione sugli elementi naturali come luce, acqua, aria e temperatura con opere immersive pensate per stupire e far pensare i visitatori. Non stupisce che le progetti qui, con questa vista, con questa luce che fa perdere il senso del tempo o forse lo fa solo riformulare. 

La casa in cui avvenne l’incontro tra Ronald Reagan e Michail Gorbačëv (Foto © Barbara Gallucci)

Non c’è un momento migliore o peggiore per passeggiare per il centro storico di R. La quantità di persone pare essere sempre la stessa. Il traffico anche. Casette di legno dai colori pastello si alternano a edifici moderni, mai troppo alti, affacciati su strade tranquille tra le quali è impossibile perdersi. Il punto di riferimento è il campanile della chiesa Hallgrímskirkja che, con i suoi 73 metri, è l’edificio più alto di tutta l’Islanda. Curioso che per arrivarci a piedi sia sufficiente seguire la strada Skólavörðustígur (va be’, no comment) con l’arcobaleno colorato sull’asfalto rimasto da un Pride di qualche anno a testimonianza dell’inclusività della città. Come se via Dante a Milano o via della Conciliazione a Roma fossero multicolor, Yellow Brick Road contemporanee per raggiungere il Mago di Oz. Da un bar non lontano mi sembra di sentire persino la voce della Carrà che canta Com’è bello eccetera eccetera. La seguo e mi ritrovo nel paradiso del vinile al Record Shop sulla Klapparstigur. Mi ci perdo un’ora e porto a casa tre 45 giri a un prezzo ragionevole. Fuori c’è sempre la stessa luce grigia con striature gialline.

Skólavörðustígur (Foto © Barbara Gallucci)

Non guardo più nemmeno l’orologio, seguo quello biologico per fare merenda, sulla strada dello struscio di R., la Laugavegur, dove non mancano negozi di souvenir (corna da vichinghi ovunque), lana locale (cara e pruriginosa) e abbigliamento tecnico (caro ma stiloso e funzionale). L’istinto mi porta a varcare una porta un po’ anonima, di vetro e qui, l’inaspettato. Se la musica e quindi i negozi di dischi sono molto presenti nella vita degli islandesi, le librerie e le biblioteche sono una vera ossessione. L’inverno è buio e lunghissimo e visto che il rischio di uscire con un parente è all’ordine del giorno loro leggono (e scrivono anche tanto). Ma siccome sono anche socievoli e sostenibili, prendono in prestito libri in posti come l’Hus mals og menningar, un locale a due piani che funge da bar, sala per la musica e immensa biblioteca dove perdersi tra titoli in ogni lingua del mondo (anche i turisti a volte fanno del bene). 

Riemergo per ricongiungermi con il flusso fluorescente di turisti che fa un po’ perdere la poesia, il cui tasso cala drasticamente una volta varcata la soglia del museo fallologico. In effetti sarei potuta non entrare, ma è difficile resistere alla tentazione di un aneddoto così ghiotto da raccontare a un aperitivo milanese. Messa insieme da un gioviale professore di storia in pensione, la collezione comprende 280 peni appartenenti a circa 90 specie animali diverse, conservati in formaldeide o disseccati. C’è quello della balenottera azzurra, del toro, del gatto, del babbuino… tutti di misure più o meno sorprendenti. Deve pensare lo stesso il gruppo di amiche non proprio giovanissime che non smettono di ridere a ogni nuovo fallo che scoprono. Nonostante la loro simpatia, la mia permanenza in questo museo unico al mondo (suppongo) è arrivata al limite. Il modo migliore per ritornare alla poesia di Olafur Eliasson è intraprendere un viaggio depurativo sfruttando il calore dell’acqua che sgorga dalla terra delle lagune naturali alle porte della città… Anche meno, a dirla tutta, visto che a un certo punto mi ritrovo immersa sì nell’acqua calda vista mare ma con uno spritz in mano (le eccellenze alcoliche raggiungono ogni angolo del pianeta, si sa). Decido di aspettare il tramonto così. Sarà una lunga attesa ma nel frattempo magari imparo a scrivere Reijkiavik, Reikiavik, Rekjavik, Reykjavik…

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