Rivista di luoghi, storie e altro

Rua Augusta è stata la mia maestra, la mia amante, la mia confidente. Ci sono tanti modi per cercare di capire São Paulo e io ne ho scelto uno, anzi due, forse di più. Perciò definisco polifonica questa mia seconda città. L’incrocio tra la mia prediletta Augusta e la scintillante Avenida Paulista è veramente qualcosa di unico e fatale. Augusta (oramai la chiamo per nome) ha origine nel quartiere elegante, il più esclusivo: Jardim. Nomen omen o urbem: i paulistani hanno avuto un’ossessione tagliente contro gli alberi e li hanno sradicati con lucida follia per fare spazio a strade, case, uffici, shopping. Se si arriva all’aeroporto domestico di Congonhas che da tempo sta dentro la metropoli, si può avere la visione infinita di palazzoni bianco-sporchi e improvvisamente di una macchia verde che circonda case ben disegnate: è lui, Jardim. 

Augusta sale lentamente cambiando pelle e stili come la muta di un serpente asfaltato. All’inizio negozi, case, bar, ristoranti sono eleganti, con una clientela d’élite abbastanza omogenea; poi diventano più popolari, dagli stili sincretici che mescolano codici senza alcun ordine. Quando sta per arrivare al punto più alto, che si chiama espigão, una specie di lungo crinale, le case basse ridiventano eleganti, quasi raffinate, seduttive tra hotel a 10 stelle, pasticcerie viennesi e ristoranti intimi. Il motivo è chiaro: Augusta sta per attraversare l’avenida che è il vanto di Sampa (affettuosamente così cantata da un grande poeta bahiano), che non per caso l’ha chiamata Paulista. Questo è un incrocio fatato. Centinaia di persone si allineano ai semafori per aspettare il transito nelle diverse direzioni. Tutto diventa aperto, immenso come i panorami delle Americhe, così diversi dagli stretti scenari europei. 

Rua Augusta (Foto © Connection Consulting, 2010)

Augusta è strettina per i parametri urbanisti locali, ha il doppio senso che deve essere gestito con razionale precisione con la solidarietà di tutti. Nessuna macchina passerebbe col verde se il tratto di strada successivo oltre l’incrocio è intasato. “Nunca fechar o cruzamento”, avvertono cartelli e in effetti, a differenza di Roma, nessun automobilista si azzarderebbe a passare col verde se ciò creerebbe, diventando rosso il proprio semaforo, il blocco del traffico nell’altro senso. Ciò significherebbe il collasso della città dagli eccessi automobilistici. Paulista invece è a due carreggiate con tre corsie ciascuna e al centro l’asfalto rosso per le biciclette; ha semafori intelligenti governati da una équipe di funzionari che gestisce i flussi di auto lungo tutto il suo percorso. Qui nessun automobilista si azzarderebbe a parcheggiare, anche i taxi possono solo raccogliere passeggeri, gli spazi per gli autobus sono inviolati, la doppia fila è assolutamente inconcepibile. Paulista si distende lungo tutto lo espigão che divide due lati della città con la sua altezza di circa 700 metri. Qui si innalzano grattacieli non altissimi ma lucidi nei vetri, banche infinite sfavillanti danari, centri commerciali dedicati al consumo, librerie eleganti, un celebre SESC che offre arte, performance, musica ad altissimo livello finanziato dai commercianti (nessun paragone, please); agli angoli (esquinas) barzinhos, ristoranti, chioschetti; su tutto emerge l’eccelso MASP, il museo di arte realizzato da Lina Bo Bardi. 

Avenida Paulista vista dall’alto © Rodrigo Tetsuo Argenton

Ad Augusta piace sostare un tempo sull’incrocio. Forse ha un flirt con Paulista: l’una è scapigliata, stretta e sensuale, l’altra ricca, larga e fastosa. Finita la sosta piena d’ammirazione, Augusta inizia la discesa dove i cambiamenti sono continui e clamorosi. Nulla è identico in questo emisfero. I negozi più bizzarri a forma di Kodak si affiancano a centri di massaggi uni o multi-sex, scuole medie, università private, centrali elettriche. Pausa: mai avrei pensato che nel centro di una città potesse esserci una grande centrale elettrica all’aperto, bassa, scritte col teschio, costruita almeno tre generazioni fa. I due migliori cinema stanno vicini, ormai tutti automatici per i biglietti, file ordinate, cestoni di pop corn più alti dello spettatore; sul marciapiede rivenditori ambulanti di film in cassetta o cd e cucinieri su carrozzine di cachorro quente espressi (traduzione nazionalista di hot dog), pizza fumante con una massa biancastra oleosa definita mussarella. Ristoranti di ogni tipo, nazione, tasca, giapponesi, italiani, libanesi. Barzinhos strapieni anche sul marciapiede, barbieri punk, loja indigena, night club techno, che conferiscono un ritmo assordante alla strada, con giovanissimi in fila per entrare. Ai lati si aprono mini-passage che Benjamin adorerebbe, con negozi “medi”, libri usati, oggetti candomblé, camice su misura, frullati perenni, parrucchieri, chavieros (diffusissimi su tutte le strade: i paulistani devono perdere spesso le loro chiavi) che incastrano nel marciapiede chiavi usate per richiamo o avvertenza; orefici japa in stanzine di 3 metri per 3, shopping astrologici, mistica a buon mercato, oroscopi per tutti, faraoni zen, orixàs filhos de Gandhi, predicatori evangelici, prostitute disincantate, palestre fitness con vetrate che mostrano corpi e macchine per autostime corporee. Ne ho vista una con la scritta fit-less, cioè dove non si usano macchine ma solo corpi per plasmare corpi. 

Tutto è mescolato da Augusta che rifiuta sdegnosa l’identità fissa e adora le identità fluide. Il traffico pulsa, suona, inquina. Augusta non si ferma mai e ama cambiare e cambiarsi nelle diverse fasce del tempo. Ora discende rapida con piccole curve verso quello che era considerato il centro della città, e che si chiama ancora così anche se è sempre meno centrale e sempre più  pericoloso. Quando gironzolo per questo centro ex-centrale ho un misto di precauzione e indifferenza, cioè non si deve mostrare di sentirsi a rischio, il vestito deve essere mimetico, il cellulare inesistente, il camminare indifferente e semi-frettoloso perché a Sampa nessuno passeggia: si va da qualche parte. Le mie curiosità per le tante stranezze che si incontrano sono controllate, vedo disperati arrivati dalle Afriche, crackeiros abbandonati qua e là, moradores de rua ovunque. Meglio abbandonare con tristezza questo ex-centro e risalire per la mia Augusta…

Foto © Massimo Canevacci

Dopo alcuni anni, nell’agosto del 2022 sono tornato da Augusta, che mi ha accolto freddamente. Ho cercato di capire il motivo del suo mutamento umorale, ma niente, non sono riuscito a intendere nulla. Ho pensato che Bolsonaro è un presidente che pesa contro la sua allegria scostumata, ma era una mia proiezione stradale. La nuova università particular di comunicazione  (cioè privata) illumina di buio il marciapiede. Frotte di ragazzine entrano dentro, tutte in tiro e ridacchiando. Mi sono domandato cosa mai insegneranno là dentro, quando nella USP, la migliore università pubblica del Brasile, c’è il dipartimento di comunicazione e arte di grande livello e prestigio: la ECA, dove tante volte ho insegnato anche io. Forse Augusta è irritata per questa tendenza a privatizzare spazi e università, dove vanno studenti che non sono riusciti a superare i vestibular per le pubbliche (le selezioni su test). Poco distante c’è un bel cinema con tante foto che celebrano il cinema italiano di una volta: Fellini, Antonioni, De Sica, Rossellini, Leone. Decido di entrare con un’amica. In sala siamo in tre, proiettano il Buco, di un giovane regista italiano, Michelangelo Frammartino. Un film meraviglioso, girato con metodo etnografico, senza voce off, solo inquadrature che respirano il parco del Pollino, piani sequenza che entrano nelle stratificazioni telluriche del cosmo. Uscendo ancora emozionato, ho immaginato Augusta seduta vicino a me e, mentre mi stringeva la mano con ternura, mi ha fatto capire che sarebbe voluta rimanere in sala per rivedere quel cratere corporeo e sparirci dentro.

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