“Hay siempre que separar las drogas”. Ogni volta che penso alla scena dei Goonies con Mouth che spiega alla governante messicana come sistemare casa per il trasloco della famiglia Walsh non riesco a non ridere. E infatti, ovviamente, rido quando mi ritrovo a due passi da quella casa, in legno bianco e col tetto spiovente con le tegole scure, ad Astoria, estremo nord dell’Oregon. Reprimo l’istinto a improvvisare una belly dance come Chunk e mi do un contegno solo perché è una casa privata e la simpatica homeless che mi sta passando accanto ha già cominciato a prendermi a male parole. Magari invece sta solo indicandomi la County Jail da dove fugge la banda Fratelli. Oppure vuole dirmi qualcosa su quel film che ha segnato più di una generazione. Forse lei dalla visione dei Goonies non si è mai ripresa. Anche io un po’ visto che ho guidato fino a qui da San Francisco.
Miracoli del soft power. Quello che ti fa scegliere una destinazione piuttosto che un’altra. Quello che ti fa macinare chilometri anche se la benzina costa. Quello che ti fa fermare decine di volte per trovare l’inquadratura che hai visto mille volte su uno schermo. È per i Goonies che mi ritrovo in Oregon. Per i Goonies ma anche perché “Hay siempre que separar las drogas” potrebbe essere il nuovo motto dello Stato forse più permissivo sulle liberalizzazioni delle droghe leggere. Non che la California non lo sia, ma qui è diverso, sono andati oltre la cannabis (ormai legale a scopo ricreativo in una ventina di Stati americani e utilizzabile per ragioni terapeutiche in quasi il doppio), in Oregon si promuove anche l’uso terapeutico della psilocibina, molecola presente in alcuni funghi allucinogeni al centro di un vasto programma di studi che da queste parti stanno prendendo davvero sul serio. Non la vendono agli angoli delle strade come il Fentanyl. Ma nemmeno la marijuana, che invece si trova in Weed store apparentemente progettati da designer scandinavi per quanto sono minimal e, a loro modo, eleganti.
A occhio e croce Steven Spielberg e Chris Columbus, che hanno firmato soggetto e sceneggiatura dei Goonies, qualcosina devono aver sperimentato per immaginarsi una storia tanto semplice quanto geniale. O forse gli è bastato un viaggio on the road immersi nella natura dell’Oregon, tra foreste a picco sull’oceano (a Brookings), dune di sabbia dove si aggirano solitari cerbiatti (nell’Umpqua Lighthouse State Park), grotte dove rumoreggiano centinaia di foche a riposo (a Florence), scogli che sembrano disegnati al computer (a Cannon Beach), pescatori dalle facce ruvide e schiaffeggiate dal vento e giovani nerd usciti da un film anni Novanta che servono zuppe di pesce o caramelle al thc (più o meno ovunque).
Mentre guido verso Portland su una highway che a ogni curva sembra venire inghiottita dai boschi ascolto una radio locale il cui segnale va e viene come l’orizzonte stradale. La musica è buona ma a incuriosirmi sono le pubblicità. C’è quella che promuove cene oversize in una catena di ristoranti e quella di un negozio di tagliaerba; mi sembra di coglierne un paio di shop olistici ma non capisco esattamente cosa vendano. Una scuola di arti marziali, un disco di una band che non conosco, un noleggio di biciclette cittadino, una serata di beneficienza. Promuovono piccoli business di provincia. Eppure mi sto dirigendo nella città dove è stato inventato uno dei brand più noti del mondo per l’abbigliamento sportivo con il logo oggettivamente più bello di sempre, quel baffo semplice ispirato dalla Nike di Samotracia. L’ha inventato 50 anni fa una studentessa di design, Carolyn Davidson, che in cambio ricevette la bellezza di 35 dollari. Così narra la leggenda. A Portland (o Portlandia come la serie più hispter mai vista che prende in giro l’hipsteria collettiva della città) di certo non manca un mega showroom dell’innominabile brand, ma fare shopping lì è proprio da loser, tra l’altro non politicamente corretto né sostenibile, due ossessioni al limite del maniacale da queste parti.
Città industriale col suo porto fluviale sempre attivo, Portland ha una doppia faccia di quartieri di case basse e un centro in mattoni rossi dove però vivono soprattutto gli homeless che hanno piantato le loro tende igloo su tutti i marciapiedi del centro. Colpa della crisi economica, della sfortuna o dell’epidemia di oppioidi. Ma anche di un approccio alla soluzione politica della questione non proprio tempestivo. L’oasi diventa quindi il luogo di una mia personale crisi economica: Powell’s books. La libreria, fondata nel 1971 come il famoso brand di cui sopra (una coincidenza che meriterebbe un racconto a parte), è talmente immensa da autodefinirsi la libreria indipendente più grande del mondo. Non ho misurato le scaffalature ma mi son persa, e ripersa, e ripersa. Ogni volta con un libro in più in mano, quindi deve essere una geniale strategia di marketing per far perdere i clienti. Per fare soldi non serve un logo, basta un corridoio e tante scale messe a caso.
E già che c’ero ho comprato anche una mappa cartacea dell’Oregon. Mi servirà per quella che considero un’impresa epica: raggiungere Crater Lake che, dal sito del National Park, sembra essere ancora innevato nonostante sia primavera inoltrata. Parto dal mio container (soluzione b&b particolarmente hipster e cozy come direbbero loro) e mi dirigo verso sud. Sono 280 miglia circa (450 chilometri) all’inizio facili, poi immersi nei boschi e salendo passi. Ignoro i cartelli che suggeriscono di montare le catene. Non saprei da che parte cominciare. Mi fermo per un pit stop su un passo dove mi fa benzina un bambino biondo di una decina d’anni, con la camicia da boscaiolo d’ordinanza. Quando gli chiedo perché non è a scuola, mi fa notare che il sabato è chiusa e quindi dà una mano al padre. Gli domando se prevede neve. Annusa l’aria, guarda il cielo, io trepidante in attesa dell’oracolo. Mi risponde “non so” e mi chiede “cash or card?”. Gli allungo la carta e incrocio le dita per la neve.
A Crater Lake ci arrivo per l’ora di pranzo. Mai viste strade più pulite di così. La neve è depositata sui bordi della carreggiata che son diventati due muri bianchi. Qualche fiocco scende, ma nulla di epico tranne il paesaggio. Saranno l’altitudine, il freddo o il bianco accecante della neve, ma prende l’euforia in contesti del genere. E tornare alla civiltà urbanizzata è complicato anche se sto ascoltando un podcast sulle olimpiadi di Città del Messico e succede che raccontano di Fosbury e della sua rivoluzione nel salto in alto di schiena. Sono a un bivio, guardo la mappa, a sinistra la strada verso Fort Klamath per tornare verso sud, direzione California, a destra Medford. Proprio in quel momento la voce del podcast dice che Fosbury ha inventato il suo famoso salto mentre frequentava il liceo a Medford, Oregon. Sto lì un po’, indecisa sul da farsi.
A togliermi ogni dubbio è la neve che cade con più motivazione sul parabrezza. Decido di proseguire verso sud e guido all’infinito fino a Weed, California. Un nome un programma su cui ovviamente è stato costruito un business. Profumo di dollari e marijuana all’ombra del monte Shasta innevato. “Hay siempre que separar las drogas” in questa faccia hipster dell’America.