Arriviamo a Le Havre per colpa del Subbuteo. Dire per colpa è sbagliato, lancia un’ombra ambigua su quella che, scopriamo una volta scesi dalla macchina, è la città più popolosa della Normandia, nonché il secondo porto in Francia dopo Marsiglia. Notiziole futili, facilmente reperibili su Wikipedia, sarebbe molto più corretto dire che arriviamo a Le Havre grazie al Subbuteo, del resto sto qui a scriverne. Quando ero piccolo, tra la fine degli anni Settanta e la metà degli Ottanta, sono stato un abile giocatore di Subbuteo. A causa, stavolta davvero, del mio studiare violoncello mi era proibito giocare a calcio, una delle mie più grandi passioni, quindi non potevo che sublimare il tutto con il calcio in punta di dito, così veniva presentato il Subbuteo negli spot televisivi. Le squadre le compravo in un negozio vicino casa che vendeva giocattoli e mobili per le camerette, Mobilbimbi. C’era uno scaffale dedicato al Subbuteo, dal quale attingeva un po’ tutto il quartiere, col risultato che spesso ci trovavamo a giocare mettendo in campo le stesse squadre. Anche per questo presto cominciammo a dipingere le squadre con gli smalti da modellismo, usando degli stuzzicadenti come pennelli. A quel punto potevamo anche permetterci finezze come disegnare i baffi ai calciatori con baffi, fare biondi i biondi e scrivere i cognomi sulle basi, una sorta di pimpaggio o costumeria fai da te. Prima che tutto ciò iniziasse, le mie squadre erano esattamente come le compravamo da Mobilbimbi, e a un certo punto me ne capitò tra le mani una la cui maglia giocava su due differenti tinte di blu, una più scura e una più tendente al grigio, il Le Havre. Una squadra minore, di cui non si trovava traccia neanche nella nostra Bibbia ufficiale, il Guerin sportivo, per cui mi fu del tutto impossibile scrivere i nomi dei calciatori sulle basi.
Potrà sembrare che io stia andando fuori tema, e che stia andando fuori tema addirittura prima di sfiorarlo, il tema, di lasciar intravedere quello che sarebbe dovuto essere il programma della serata. In realtà, concedetemi il beneficio di inventario, quello che avete letto è, né più né meno, la raffigurazione plastica del viaggio che ci ha portato fino a Le Havre, uso il plurale perché con me ci sono quattro quinti della mia famiglia: mia moglie Marina, mio figlio mediano Tommaso, diciassette anni, e i gemelli Francesco e Chiara, quasi undici, mentre Lucia, ventuno, è assente giustificata. Un viaggio che è cominciato dieci giorni prima, partiti da Milano in auto, e che ci ha visto attraversare in lungo e in largo la Loira, base nel borgo sconosciuto di Sens-Beujeu, con tappa iniziale a Digione, in terra borgognona. Lo spostarsi in auto in Francia sarà, fatta eccezione proprio per la tappa a Le Havre, parte portante del viaggio, un on the road bucolico e campestre, punteggiato da castelli, e non poteva che essere così, ma adornato di città incantevoli come Bourges, Orleans, Amboise, Tours, tanto per fare qualche nome, e tappe fuori porta a Parigi e alla casa di Monet, a Giverny, già in Normandia. Man mano che ci lasciavamo la Loira alle spalle, le colline che si appiattivano, le mucche color beige, mai viste prima in vita mia, che lasciavano spazio a quelle bianche con macchie nere così presenti anche dalle nostre parti, l’idea di arrivare in Normandia si è fatta quasi straniante, come se quei giorni passati in una terra neanche troppo lontana dalla nostra Milano fosse una sorta di tradimento, per di più perpetrato senza avere chiara idea di dove saremmo andati a finire. L’appartamento, lo abbiamo scelto a Le Havre proprio perché, leggendo quel nome su Airbnb, mi è tornata in mente quella vecchia squadra di Subbuteo.
La prima cosa che scopriamo, avvicinandoci, è che a Le Havre, nella parte che immagino sia periferica, si trova il delta della Senna. Se si tratti di delta, estuario o foce non saprei dirlo, non sono così esperto di fiumi, ma la Senna sta lì, imponente, e per arrivarci tocca anche salire un ponte vertiginoso, nel senso che un ponte che presenta prima una salita abbastanza ripida e poi, conseguentemente, una discesa altrettanto ripida, dal nome piuttosto didascalico di Ponte di Normandia. È la prima cosa che si vede entrando in città, il delta della Senna, e lo spettacolo è già di quelli che lasciano a bocca aperta. Perché in fondo alla Senna, confuso nei riflessi che il sole a queste latitudini regala, c’è l’Oceano, sempre che si chiami così anche il pezzo di mare che poi diventa Manica, giochi di colori che difficilmente capita di vedere in altre sponde. Superata questa zona, ci stiamo dirigendo verso la nostra abitazione, passiamo di fronte proprio allo stadio dell’Havre Athletic Club, quello in cui, mi dice mio figlio Francesco, ha giocato Pogba, da poco ritornato alla Juventus. Lo stadio appare come una sorta di astronave blu acceso, molto futuristica e plasticosa. Decisamente meglio del Parco dei Principi che ci è capitato di vedere nella nostra toccata e fuga a Parigi, assai più piccolo di come me lo immaginavo e non particolarmente evocativo.
Le Havre, andando verso la zona che Google Maps mi indica come “casa” è una città molto bella. E anche molto strana. Perché è estremamente moderna, a un certo punto di fianco a un grande canale marino, o forse è sempre la Senna, vallo a sapere, ci appare una costruzione che sembra in tutto e per tutto un vulcano bianco acceso, anche i campanili delle chiese, come quello che poi scopriremo essere della chiesa dedicata a San Giuseppe, richiamano il gotico, ma sono tutti estremamente recenti, a occhio della seconda parte del Novecento. Così è, scopriremo, perché Le Havre, sorte toccata a buona parte della Normandia, fu letteralmente rasa al suolo dai bombardamenti degli alleati quando erano importante avamposto tedesco, e quello che l’Unesco nel 2005 ha indicato come patrimonio dell’umanità è non a caso una delle poche aree urbane di costruzione moderna a essere così celebrata. Opera dell’architetto visionario August Perret, cui la città affidò l’improbo incarico di ricostruire a colpi di calcestruzzo sulle macerie, esaltando proprio quei giochi di luce che del resto lo stesso Monet aveva scelto come ispirazione andando a vivere non troppo lontano da qui.
L’appartamento che abbiamo trovato su Airbnb si dimostrerà un’ottima scelta, perché a neanche centro metri dalla spiaggia affacciata sull’oceano, proprio in quell’arco di costa dove sorge la ruota panoramica e una sorta di mini luna park, e perché assolutamente strategico per spostarsi nelle mete che ci eravamo prefissati. Ma è proprio Le Havre che si rivelerà una scelta azzeccata: una città votata al futuro che però non disdegna di fare in conti con un passato violentemente cancellato. Il vulcano intravisto strada facendo è in effetti un vulcano, almeno nelle intenzioni, progettato dall’architetto brasiliano Oscar Niemeyer, quello che tra le altre cose ha progettato il palazzo Mondadori di Segrate, nel quale ho passato sei anni della mia vita, i soli che mi hanno visto titolare di una scrivania. L’edificio è stato pensato come centro culturale proprio nel cuore della città, un centro culturale che oggi sembra un po’ spoglio, forse perché lo visitiamo in agosto, e che presenta sul suo cucuzzolo l’installazione di un artista contemporaneo: un ragazzo che fa una acrobazia in skateboard. Un’altra installazione adorna, per modo di dire, il ponte che taglia in due il grande canale su cui il Vulcano di Niemeyer si affaccia, dentro il quale alcuni ragazzini a bordo di imbarcazioni piccole con vele che si rifanno a vecchi gonfaloni si esercitano al sicuro dalle correnti oceaniche, una ragazza dai lunghi capelli biondo cenere che le coprono il volto – ricorda la protagonista di The Ring – sta seduta su una altalena sospesa sull’acqua.
Questa cosa delle installazioni artistiche che adornano le città e anche i borghi è una costante del viaggio in Francia, dalle immagini poste agli angoli delle strade, dove si trovano le targhe che ne indicano i nomi, a vere e proprie statue moderne collocate in luoghi improbabili. Sempre a Le Havre abbiamo visto una specie di porta dei colori dell’arcobaleno fatta di container sancire l’ingresso al porto mercantile, a pochi passi dei manichini assolutamente simili a persone se ne stavano affacciati a balconi e finestre in una piazzetta nei pressi di una delle tante bellissime chiese, miracolosamente sopravvissuta alle bombe inglesi. La chiesa di San Giuseppe, poco lontano da dove abbiamo pernottato nella nostra tappa normanna, progettata dal solito Perret ma portata a termine dopo la sua morte dai suoi allievi, è il fiore all’occhiello della città, così lanciata verso il cielo come segno di resurrezione e rinascita, considerata a ragione una delle più belle opere architettoniche del XX secolo, i giochi di luce fatti con vetrate e altezze degni di una Notre Dame. Del resto Le Havre è una città che per sua natura tende verso l’alto, giocata su colline e alture raggiungibili attraverso un numero impressionante di scalinate, si dice siano ottantanove, e con recenti creazioni come i Giardini Pensili, costruiti dentro e intorno a una rocca in disarmo, diciassette ettari di verde da dove affacciarsi su un panorama mozzafiato sulla Senna e sull’oceano.
Proprio l’oceano, per noi lì, dietro l’angolo di casa, è uno spettacolo che da solo meriterebbe un viaggio. Vederci affondare il sole, quando da noi è già notte, del resto siamo a nord-ovest, è davvero qualcosa di sorprendente. La visita a Omaha Beach e la gita a Étretat, dove ci capiterà non solo di salire sulle falesie e faraglioni, ma anche di mangiare cozze col salame piccante e il curry, perché la bellezza, si sa, esige prezzi carissimi, il mare che tinge il cielo di rosso acceso mentre si tuffa in acque decisamente agitate, tutto questo faciliterà il nostro perderci in una sorta di mal d’oceano che non sapevamo neanche esistesse, noi nati in riva all’Adriatico e abituati a un mare decisamente meno aggressivo.