“Massimo, tu devi smetterla con la tua visione canellicentrica del mondo!”. Questo mi urlò in faccia il collega Riccardo T., nel bar di via Braccini a Torino, durante la pausa pranzo in un giorno della primavera del 1987. Da quel momento, divenni per tutti il “canellicentrico”, l’uomo che riconduceva qualsiasi discussione o problema alla sua piccola città. Non universalizzavo, canellizzavo i temi. Da dove veniva questa mia ossessione per Canelli, questo mio insopprimibile orgoglio canellese? Fin da bambino, specie quando ero in Liguria per le vacanze estive e qualcuno mi chiedeva di dov’ero, rispondevo prontamente: di Canelli, la città dei Caroselli di Gancia, Riccadonna e Bocchino! Forse tutto nacque da lì, dalla sensazione di enorme importanza che dava il sentire il nome della propria città in televisione, e a Carosello, poi!
Comunque, il bambino di allora qualche ragione doveva averla, se alcuni di quei nomi che ricorrevano nella pubblicità televisiva con personaggi quali Mike Bongiorno, Mauro Bolognini, Mario Soldati e perfino Alberto Sordi, sono stati all’origine del riconoscimento di alcuni luoghi di Canelli quali Patrimonio dell’Umanità da parte dell’Unesco. Parlo delle “Cattedrali Sotterranee”, le cantine Gancia, Bosca, Contratto e Coppo, oggi tutte visitabili su prenotazione. Alcune di queste cantine erano attive già dai primi decenni dell’800, e qui nacque il primo spumante italiano, quello che allora era spesso chiamato lo “champagne di Canelli”, l’Asti Spumante ante litteram, rifermentato in bottiglia secondo di dettami della scuola francese.
Le cantine canellesi erano ben più numerose delle quattro divenute Patrimonio dell’Umanità, ma molte, non essendo più attive, non hanno potuto ottenere il riconoscimento. Eppure, quando noi canellesi passeggiamo in certe vie, sappiamo che sotto i nostri piedi scorrono ancora le arterie di quello che fu un corpo produttivo incredibile che, oltre a vini e spumanti, sfornava oltre metà della produzione nazionale di vermouth, e in particolare del “Vermouth di Torino”. In molte di queste cantine aveva lavorato mio padre, un altro che non aveva saputo stare lontano da Canelli: emigrato a Ginevra per raggiungere la madre che là viveva, resistette poco più di un anno prima che la “sindrome del platano del Bar Torino” avesse la meglio e lui tornasse, di giorno, a scuotere, ruotare e sboccare bottiglie nella Canelli sotterranea, e la sera a discutere animatamente nei rö (“crocchi” in dialetto) che si formavano sotto le capienti fronde dell’albero ultrasecolare che domina piazza Cavour.
Non solo vino, spumante e vermouth: anche la grappa era importante. E il museo custodito all’interno dell’antica Distilleria Bocchino sta lì a testimoniarlo. La grossa fortuna dell’industria enologica legata al Moscato d’Asti e all’Asti Spumante, ancora oggi importante risorsa della città, cominciò a prendere corpo a cavallo tra ‘700 e ‘800, per raggiungere l’apice nella prima metà del ‘900. Accanto all’industria vinicola e spumantiera si sviluppò da subito un grande indotto: bottai, industria del sughero, del vetro e delle pupitre e, da un certo punto in poi, anche l’industria enomeccanica. Imbottigliatrici isobariche, tappatrici, etichettatrici e tutto ciò che ha a che fare col confezionamento dei prodotti alimentari, e non solo, viene prodotto nelle industrie meccaniche canellesi ed esportato nel mondo. Tra i principali clienti: Coca Cola, Ferrero, i grandi produttori della Napa Valley. Questo tipo d’industria è sicuramente meno attraente per il turista, dà meno appeal al nome di Canelli, insomma è meno sexy, ma ha un’importanza decisiva per la sua economia, e si tratta pur sempre di un’attività legata alla vite.
E allora facciamo un giro in questa “città del vino”. Partiamo da piazza Cavour: verso sud, al centro della rotonda stradale, si intravede il monumento dedicato all’economia canellese, una piramide d’acciaio che al suo interno contiene il germoglio di un tralcio di vite, a simboleggiare lo strettissimo legame tra le due anime dell’economia cittadina, l’industria vitivinicola e quella enomeccanica. A nord, sulla destra, troneggia lo splendido platano che custodisce tanti segreti canellesi sussurrati alla sua ombra. Lasciandoci il platano alle spalle, imbocchiamo via XX Settembre, l’antica “Contrada Maestra”, che conduce in piazza Amedeo d’Aosta (già piazza Vittorio Emanuele II, e chissà perché Canelli ha scelto di privilegiare proprio il ramo cadetto di Casa Savoia). Qui incontriamo la facciata dell’antica Casa Comunale, distrutta dagli Spagnoli nel 1617 e ricostruita dieci anni dopo. Alzando lo sguardo, l’imponente e inconfondibile sagoma gialla del Castello Gancia ci dice che stiamo tornando a casa.
Per calarci nell’atmosfera del “boom” spumantiero di un secolo fa, prendiamo a sinistra via G.B. Giuliani, strada dedicata a un illustre italianista e dantista canellese dell’800, una delle culle dell’industria enologica canellese. Qui si incontrano tre delle Cattedrali Sotterranee: a sinistra le Cantine Bosca, fondate nel 1831, dove tuttora si produce la Riserva del Nonno col Metodo Classico; più avanti a destra le Cantine Contratto, scavate nei primi del ‘900 sotto la collina di Villanuova e caratterizzate dallo stile Liberty, o Art Nouveau, che ritroviamo così spesso per le vie canellesi; e infine le Cantine Coppo che, partendo da via Alba, arrivano a sbucare nel giardino della villa di famiglia. Oltre a queste aziende, in via Giuliani e nella parallela via Verdi ce n’erano molte altre: Amerio, Zoppa, Narice, Filippetti.
Passiamo davanti all’Enoteca Regionale di Canelli e dell’Astesana e svoltiamo verso Piazzale San Tommaso. A quel punto ci troveremo di fronte alla parrocchiale di San Tommaso, alla bella facciata barocca dell’Annunziata, ribattezzata Sant’Andrea dalla Comunità Ortodossa Rumena che l’ha attualmente in gestione. L’immigrazione, specie quella macedone e rumena, meriterebbe un discorso a parte, ma sarà per un’altra volta. Dietro il portone della parrocchiale di San Tommaso si nascondono uno splendido battistero, la statua lignea di Sant’Anna del Bonzanigo e i dipinti di Giancarlo Aliberti e del Gorzio. Lasciandoci a destra la Chiesa dell’Annunziata, inizia la Sternja, oggi detta anche via degli Innamorati, dedicata a Raymond Peynet, il famoso disegnatore dei fidanzatini, e impreziosita da opere di artisti locali.
La Sternja, compresa nel sito Unesco, è una strada acciottolata che partendo da piazza San Tommaso arriva al piazzale San Leonardo, con un’appendice che porta fin sotto al Castello Gancia. Il percorso è a tratti faticoso, specie se sotto il sole estivo, ma molto suggestivo e ricco di splendidi panorami “pavesiani” (La Luna e i falò) e “fenogliani” (Una questione privata). C’è persino un sorprendente sprazzo di Ungaretti quando, appena dopo la chiesetta di San Giuseppe, incontriamo a sinistra Villa Ungà, dedicata al poeta da una sua antica compagna che dal Brasile ritornò nei luoghi d’origine.
Salendo ancora, si giunge prima alla terrazza panoramica di Costa Belvedere, e poi ai piedi del Castello Gancia. Il castello ci ricorda come Canelli fosse un baluardo della Repubblica Astesana prima e del Regno di Savoia poi, contro il Marchesato del Monferrato e per questo fu teatro di innumerevoli episodi bellici. Assumono particolare rilievo le vicende dell’Assedio di Canelli del 1613: la morte nel 1612 di Francesco Gonzaga, duca di Mantova, avente diritti sul Monferrato, diede il via a numerosi dissidi per la successione, e Canelli, posta sul confine tra Savoia e Monferrato, divenne teatro dei combattimenti. A partire dalle vicende storiche dell’assedio del 1613 e dell’opera lirica ad esse ispirata, nel 1991 si avviò a Canelli una grande rievocazione storica annuale, intitolata, appunto, “L’Assedio di Canelli”. Per un intero fine settimana di giugno, l’intera città si calava nel 1613 grazie a imponenti scenografie sapientemente costruite e al lavoro di centinaia di figuranti abbigliati con costumi d’epoca confezionati con grande rigore storico. Insomma, si mangiava, si beveva e ci si divertiva in una bella compagnia internazionale. La rievocazione si è tenuta ogni anno fino al 2017, dopo di che è stata “sospesa”, un po’ per stanchezza, un po’ perché ritenuta troppo costosa.
Tornando al castello, la mia bussola, quello originario fu in gran parte distrutto nel 1617 dagli Spagnoli durante la guerra di successione del Monferrato e riedificato dal 1676 per opera degli ultimi marchesi Scarampi Crivelli, anche se in forme ridotte e con carattere di un palazzotto. L’ultima grande ristrutturazione fu commissionata dalla famiglia Gancia all’architetto Arturo Midana tra il 1929 e il 1930. Continuando in direzione di Regione Aie, della frazione di Sant’Antonio e della chiesetta di Santa Libera si possono ammirare panorami splendidi sulle colline dell’Astigiano, delle Langhe, e del Monferrato. Nelle giornate più limpide, l’arco alpino è lì a un passo e quando si arriva sulla vetta della torre dei Contini si può godere di una bellezza che dà le vertigini. E dire che, fino a trent’anni fa, nessuno saliva fin quassù.
Sono queste le strade che tante volte ho percorso a piedi da bambino, in Vespa da ragazzo, in auto da adulto e poi di nuovo a piedi da camminatore “maturo”, sono queste le strade e i panorami che hanno consolidato la mia visione canellicentrica del mondo, che hanno fatto sì che ovunque io abbia abitato tra i venti e i cinquant’anni, la mia testa e il mio cuore siano sempre restati ostinatamente a Canelli, finché non ci sono tornati anche fisicamente. Già, perché, a diciannove anni, senza dire niente a nessuno me ne andai a Genova, non per imbarcarmi su “un cargo battente bandiera liberiana”, ma per studiare Economia e Commercio. Poi, il militare a Rovigo e il lavoro a Torino, Madrid, Ginevra, Lisbona, Treviso, Milano e Lussemburgo, sempre con la dannata voglia di tornare alla città natale. Quando, a Ginevra, ebbi la possibilità di provare i nuovi modelli sportivi di Fiat e Alfa Romeo, la prima cosa che feci fu di tornare a Canelli per quattro fine settimana consecutivi con quelle auto che nessuno aveva ancora visto e parcheggiarle davanti al Bar Torino, il salotto della città. In questo, però, non ero e non sono solo: conosco un paio di musicisti che, pur avendo calcato vari e prestigiosi palchi, non si sono mai sentiti completamente realizzati in quanto non mai hanno suonato nel Teatro Balbo di Canelli. Un altro, poi, ha rinunciato a una promettente carriera pur di non dover fare a meno degli agnolotti col plin della mamma.
Ecco, forse il segreto, la ragione ultima, sta proprio lì, negli agnolotti col plin.
(L’autore desidera ringraziare Gianluigi Bera per le informazioni storiche)