Rivista di luoghi, storie e altro
Il palazzo ducale di Charleville-Mézières (Foto di Dietmar Rabich CC)

A Charleville-Mézières sulle tracce di Rimbaud

Curioso come la Francia si sia giocata la vita e la morte nel raggio di un’ora di macchina. Quella che intercorre, più o meno, da Rocroi a Sedan, lassù nel nord-est, o nel Grand Est, come da recente denominazione post-riforme. Rocroi, dove il principe di Condé “dormì profondamente prima della battaglia”, come da manzoniano ricordo; Sedan, catastrofe nazionale per i francesi, occasionissima da sfruttare per l’Italia nel 1870, con la breccia di Porta Pia. Un’ora di macchina al confine col Belgio, con quella “pauvre Belgique” definita da Baudelaire anche “capitale delle scimmie”, nel senso di Bruxelles. A metà strada tra Rocroi e Sedan ci sono le Ardenne, e giù altri ricordi di battaglie sanguinose. Nello specifico il centro più importante della zona, una città col doppio nome perché è un’unione di due borghi. Da qui un altro grande poeta dell’epoca baudelairiana partì in cerca di fortuna e si può dire che la trovò solo da morto. Morto artisticamente, perché già aveva preso una strada leggermente diversa dalla composizione dei versi. Si chiamava Arthur Rimbaud e veniva da Charleville-Mezières. 

La piazza principale di Charleville-Mezières (Foto © Alessandro Ruta)

Rimbaud odiava la sua città. Aveva fatto praticamente di tutto per scappare fino a quando non gli arrivarono dei soldi dal suo idolo, Paul Verlaine. Conosciamo quasi tutti la storia di questi due poeti diventati amanti, in una relazione ambigua tra sesso, droghe, tentati omicidi, fughe e quant’altro, fino alla rottura definitiva. Una pistolettata di Verlaine a Rimbaud, ma a Bruxelles, il carcere per il primo (due anni!), il ritorno a Charleville-Mezières per il secondo, ma solo un attimo, il tempo di scrivere Una stagione all’inferno e abbandonare per sempre la letteratura, dove era entrato a gamba tesa con le sue poesie “visionarie”. Je déscendais les fleuves impassibles, l’attacco del Bateau ivre, oppure Le dormeur du val, che quasi un secolo dopo avrebbe ispirato De Andrè per La guerra di Piero

Comunque, Charleville: 80mila abitanti, un vago sentore belga, perché del resto in mezz’ora andando in su sei al confine. Tanti baretti con elenchi di birre di tutti i tipi, questo pure molto belga oltre all’architettura delle piazze (Place Ducale sembra Bruxelles, ad esempio, col suo bel pavé e la pianta squadrata, i portici pieni di brasserie) e un tempo atmosferico diciamo pure nordico, dove la pioggia può arrivare a fare capolino anche a luglio inoltrato.  Per il resto: una statua di fronte alla stazione dei treni, un ristorante, una pizzeria, una lavanderia, un negozio di souvenir, una libreria, una biblioteca, un “Quai” (uno spiazzo) e un museo. Tutto in centro, tutto dedicato al cittadino più illustre di Charleville-Mezières, per l’appunto Rimbaud. Sarebbe curioso sapere che cosa penserebbe l’esimio poeta di questa moltiplicazione del suo volto, di questa “walterbenjaminizzazione” del suo volto, quel volto per sempre bambino anche se Arthur è morto, divorato dal cancro, una gamba amputata, a 37 anni appena, tra atroci sofferenze. Giusto, c’è anche la tomba al cimitero di Charleville, non va dimenticato.  Rimbaud ovunque, e meno male che di lui esistono delle foto nitide, un paio, scattate da Etienne Carjat, l’altro Nadar, i proto-fotografi della seconda metà del XIX secolo a Parigi. Tutti i vip dell’epoca erano passati dalle loro macchine, le pose seriose senza mezzo sorriso, forse perché qualcuno aveva già perso i denti. C’era chi non sorrideva nemmeno nei quadri, figurarsi nelle foto che per a quel tempo erano una sorta di diavoleria. Mai quanto il cinematografo, comunque. 

Il museo Rimbaud di Charleville-Mezières (Foto © Alessandro Ruta)

Di tutti i posti “rimbaudizzati” l’unico che meriti davvero è il museo, una vera chicca. Innanzitutto, per la collocazione: è sospeso, quasi tenuto su con la forza, sul fiume Mosa, che taglia ripetutamente la città come un serpente, creando angoli mica male senza spingersi troppo nel romanticismo. Il musée Rimbaud è un grosso casermone in pietra giallognolo, slanciato, che conclude di fatto il centro storico ed è strutturato su tre piani da percorrere a ritroso, cioè dall’alto verso il basso. Bisogna prendere un ascensore per andare in su e da lì scendere con una strada obbligata. Costa 7 euro, ma con il biglietto si può andare anche a vedere la casa dove abitò la famiglia del poeta e il museo delle Marionette, nella Place Royale. 

Terzo piano, primo effetto spettacolare. Non c’è nulla in questa sala a parte un mucchio di altoparlanti che in diverse lingue recitano i versi di Rimbaud. L’effetto è straniante, ma affascinante al contempo. Non si capisce più niente, a un certo punto, ma va bene così, del resto il “bateau” della poesia omonima era “ivre”, quindi “ubriaco”, e anche il visitatore conclude mezzo sbronzo l’inizio della visita. Una volta ripresosi può prendere la scala per scendere al secondo piano, dedicato all’infanzia di Arthur, ragazzotto precoce e, come dirà la moglie di Verlaine, Mathilde Mauté, “che puzzava un po’ di contadino”. In effetti Charleville non è, ancora oggi, rinomata per il settore terziario. Lassù, grandi distese di campi, lavoro duro e tanto alcol da smaltire, almeno una volta. Classica situazione dove chi può scappa via ancora oggi, con la popolazione in calo da decenni, e che nel 1870 o giù di lì portava le menti più brillanti a tentare una via d’uscita. 

Una delle sale del Museo Rimbaud di Charleville-Mezières (Foto © Alessandro Ruta)

I primi versi, le prime pagelle scolastiche, le prime marachelle. Dopodiché si scende al primo piano e si incontra subito Verlaine, con la sua maschera mortuaria. Inutile specificare l’importanza del maestro decadentista (“Je suis l’Empire à la fin de la décadence”, tutta roba sua) per la vita di Rimbaud. Non solo per il loro rapporto allucinato e allucinante che porterà a una rottura clamorosa, ma perché Verlaine, nato peraltro a Metz, quindi nemmeno troppo distante da Charleville, sarà colui che renderà l’amico-amante famoso nella storia della letteratura. Quando, infatti, ormai rottame nel fisico e nell’anima, si inventerà la storia dei “poeti maledetti” autoincludendosi, nel librettino di spiegazione inserirà anche Rimbaud. Un nome che nessuno, intorno al 1890, conosceva. Arthur, infatti, aveva dovuto pubblicare in Belgio Una stagione all’inferno, e in Francia era un perfetto sconosciuto mentre invece Verlaine era diventato “principe dei poeti” con tanto di pensioncina. L’importanza di quest’ultimo per rendere Rimbaud una sorta di James Dean ante litteram è conclamata nel museo di Charleville, che si chiude al pianoterra con l’ultima parte della vita di Arthur, la più misteriosa. Quella, in sostanza, di intrallazzatore in Africa, specialmente nella zona del Corno: traffico di cibo, armi e si dice addirittura di schiavi. Con pochissime testimonianze visive se non delle foto sfocate e rovinate e, nel museo, dei commoventi resti dei suoi attrezzi: libri che leggeva, valigie eleganti, reperti, pipe. Poi l’infiammazione alla gamba, l’amputazione a Marsiglia dopo un viaggio tremendo (ma sorretto da degli schiavi), la morte giovane come “caro agli dei”. Così finisce la visita, con un vago senso di malinconia di fronte a un’immagine di Rimbaud alla Andy Warhol, filtrata da mille colori e mille interpretazioni, in cui non ci si raccapezza più. Ma forse è quello il fascino del poeta. 

Charleville-Mezières (Foto © Alessandro Ruta)

Questi sono i miracoli della narrazione. Come detto, Rimbaud detestava Charleville, sentiva di meritarsi Parigi, o in generale una fuga per celebrare la “totale deregolamentazione di tutti i sensi”. Droga, sesso omosessuale, violenza: era un ragazzino che trovò in Verlaine un borghesotto in crisi d’identità, talmente disperato dall’aggrapparsi a lui per fuggire, insoddisfatto di una vita scialba. Va ricordato sempre che i due si conobbero più o meno a cavallo della Comune di Parigi, in cui Verlaine rischiò la vita sia da un lato che dall’altro; in quanto borghese piuttosto benestante (grazie alla moglie, che era immanicata con Victor Hugo) e in seguito addetto stampa dei comunardi. Quest’anno ricorre il 150esimo anniversario della fuga dei due da Parigi, senza meta, verso il nord. Tornare a Charleville è quasi obbligatorio per chi voglia fare del turismo letterario. È una zona poco battuta in sé, quella delle Ardenne, con questo paesaggio collinare, quasi piatto, che offre poco anche gastronomicamente. Come del resto il Belgio, con tutto il rispetto, dove va ricordato che il piatto principale sono le patatine fritte. Rimbaud scappava, ma io una sosta la faccio volentieri. Non si deve vivere male in realtà a Charleville-Mezières, dove tantissimi girano in bicicletta, fregandosene sostanzialmente del tempo instabile.  È comunque una Francia molto lontana dalle cartoline, questa, così capovolta rispetto non solo a Parigi, ma pure alla Bretagna o al Midi. Una Francia che qui, in zona, ha vissuto la vita e la morte, nascendo di fatto come stato moderno (a Rocroi, quando nel 1643 sbaragliò gli spagnoli) e quasi dissolvendosi (a Sedan, con la celebre battaglia del 1870). Anche questo è il nord-est. Anzi, il Grand Est.

Condividi