Lisbona comincia a prendere forma quando ci si allontana. Se la guardi dall’altra sponda di quel mare che tutti scambiano per l’oceano Atlantico, e invece è solo l’estuario di un fiume che qui si fa largo, larghissimo, limaccioso e lento, ma rimane comunque un fiume: Tago come diciamo noi, o Tejo, come dicono i portoghesi, che suona meglio. Se la guardi da lì, dall’acqua, allora Lisbona acquista profondità, dimensione, vita. Bastano due euro e mezzo alla stazione del Terreiro do Paço, dove un tempo arrivavano le navi con l’oro, spezie e schiavi dalle colonie e ora c’è una stazione marittima di interscambio pendolare: metro, bus, battelli. Bastano due euro e mezzo per salire su una delle imbarcazioni che in 15, 20 minuti vanno dall’altro lato, da Outra Banda, na Margem Sul, verso Barreiro. Peccato solo che non ci siano più le vecchie imbarcazioni a due piani, aperte di lato, del tutto simili a quelle che a Hong Kong uniscono la penisola di Kowloon con l’isola, solo che qui erano bianche, nere e arancioni. Erano tutti aperte, navigando potevi prendere la brezza, respirare l’acqua salmastra, far finta di essere un mezzo avventuriero, mentre ora sei solo un altro pendolare, un passeggero numero X chiuso dentro il catamarano bianco e blu, con i vetri oscurati, le file di sedie serrate, il silenzio delle teste immerse negli schermi del telefono. E così non puoi vedere sufficientemente bene la bellezza di quel che ti circonda, del fiume solcato da frotte di barche a vela, del ponte rosso come quello di San Francisco in contro sole, del profilo della città che si allontana e si allarga, della strana perfezione estetica della Lisbona ribeirinha, quella che si affaccia sull’acqua, come è sempre stato.
Tanta sorprendente, imperfetta bellezza mentre attraversi il fiume allora sei obbligato a intuirla soltanto, guardarla dietro un vetro, accontentandoti di sbirciare da un finestrino mezzo aperto e aspettare l’attracco al molo di São Bento, a Barreiro. Qui la gente scende di fretta, perché la vita ha i minuti contati, va di corsa anche in una città lenta, e nessuno dedica uno sguardo a quel che ha lasciato alle spalle, ci saranno abituati, e poi bisogna comunque tornare a casa, il bambino piange e oggi gioca il Benfica. L’attracco, questo molo di cemento che non si può certo chiamare un porto, è un posto qualunque della contemporaneità, abbastanza insulso e senza carattere, come un qualunque punto di interscambio urbano, anche se qui c’è di mezzo l’acqua. Un posto di transito dove difficilmente si sosta più del tempo necessario a prendere la barca seguente, 15 minuti dopo. Però se si va in senso opposto alla massa che sciama verso questo sobborgo un tempo operaio, con le case T2 e T3 nei palazzi corrosi dalla salsedine e dal sole, se ci si dirige verso la vecchia stazione ferroviaria in stile moresco ora ridotta a un colabrodo di cemento, allora tutto cambia. Certo, bisogna avere fiducia, perché tutto è fatiscente e solitario, un imbuto di negozi sprangati, serrande abbassate, cemento sbrecciato, odor di urina e luci tremule, però ne val la pena. Fino a quando nei primi anni duemila non hanno costruito un corridoio ferroviario sotto il piano stradale del Ponte 25 di Aprile – quello rosso che sembra San Francisco che prima della rivoluzione si chiamava ponte Salazar – questa era la stazione di partenza per il Sud, per l’Alentejo dei contadini arroccati nei paesi bianchi in cima alle colline e per le spiagge dell’Algarve. E davvero non si capisce perché la costruzione con le sue due banchine sia stata abbandonata al suo destino, perché altri binari, quelli della nuova linea locale del Sado che arriva a Sétubal, sono a poche centinaia di metri.
Ma tant’è che qui tutto è in pieno disfacimento e ce lo si lascia alle spalle volentieri, anche perché oltre qualche magazzino che non ha più nulla da immagazzinare, si apre una visione inaspettata di mulini a vento su spiagge di sabbia fine, gialla, da spiaggia atlantica. Con i ragazzi che gridano, fanno tuffi, gettandosi da moli cui sono attraccati i vecchi traghetti, quelli aperti, ancorati in una pensione arrugginita. E dietro, in controluce, basso, sfumato, spunta il profilo della città di Lisbona, delle sue sette colline, delle chiese sparpagliate qui e lì – Estrela, Monastero di São Vicente –, dei palazzi di Amoreiras, i piloni del ponte che emergono dalle acque, il parco di Monsanto, e il poco altro che si distingue serrando gli occhi. Ed è un posto assai selvatico questo, stretto tra i binari ancora in uso e l’acqua: poco più di un parcheggio disordinato, animato però da un bar con i tavolini all’aperto protetti da tende verdi stile militare, di quelle che si usano per nascondere la contraerea dagli aerei nemici. È animato da un bar alla buona, con i tavoli in plastica rossa che fanno pubblicità alle due birre locali, ora Sagres, ora SuperBock, musica dei Clash e ombrelloni a proteggere da un sole imperioso, eccessivo, anche se è sera e sarebbe declinante. Si chiama Ferroviario Barreiro, ed è il vecchio dopolavoro dei dipendenti della CP, Comboios de Portugal, le ferrovie portoghesi. Un club sportivo dove un tempo giocavano a bocce, facevano canoa, pescavano e si sfidavano a carte. E ora invece sul campo di bocce al coperto hanno steso un tatami e fanno karate, mentre i cartelli annunciano corsi di yoga e cose così, moderne, anzi postmoderne. La sala interna però è rimasta un’esposizione di memorabilia, di immense coppe di latta, grandi come una Champions League ma vinte in tornei di sport secondari disputati in giro per il Portogallo in anni andati. E poi foto di treni, cartelli di vetture di seconda classe tra Lisboa St. Apolonia e Porto Campanhã, sedie in legno di vecchi cinema dismessi con l’avvento del Technicolor.
Fuori domina il profilo di un vecchio mondo operaio che sembra ritratto da un quadro di Sironi. Perché Barreiro è sempre stata una città operaia, così come lo sono Almada, e Seixal, e Montijo. Così volle Salazar, che temeva una possibile sollevazione degli operai contro il suo regime fascista e dunque fece installare tutte le aziende pesanti sull’altro lato del Tejo, na Outra Banda. Distanti abbastanza – all’epoca ancora non c’erano i due ponti che uniscono le due sponde – per non arrivare immediatamente al suo palazzo in caso di scioperi, proteste e sommovimenti di sorta. Ora questo mondo ex operaio sembra animato solo dalle onde causate dalle imbarcazioni della Transtejo che smuovono la sabbia nelle ore di bassa marea, mentre i gabbiani riposano e qualcuno pesca dalla riva. Altre barche dondolano sull’acqua, appartengono all’associazione Pesca Local Camarros e ambirebbero a mari maggiori, ma invece stanno qui, vicino ai mulini. Perché qui il paesaggio è comunque dominato dai vecchi mulini con la base conica, imbiancata a calce, che risplende nel sole, con le pale ferme, senza vele montate, solo scheletri, in attesa di un Don Chisciotte che le sfidi, ma non sembra essere alle viste. Al massimo possono provare a sfidarli i bambini stretti nei kimoni bianchi che sfilano davanti ai tavoli dove piano piano sono arrivati tutti: anziani operai che qui sono sempre venuti, giovani studenti in cerca di Wi-fi, famiglie con bambini e persino qualche turista chissà se consapevole o disperso, come me. E mano a mano che il sole cala, il cielo si fa di un blu intenso e anche l’acqua cambia di colore, e da marrone che era per qualche istante diventa non azzurra, ma colore dell’oro. Che sembra una di quelle descrizioni poetiche e melense di certe guide, ma è vero, è il colore del Tejo in questi momenti liminali. Momenti in cui tutto diventa ancor più intenso, odoroso, caldo, un poco tropicale. Il momento giusto per tornare a Lisbona, perché questa altra sponda – formalmente – non è mai stata parte della capitale, ma un Comune diverso, un sobborgo.
Tornare riprendendo la barca, invertendo sul far della notte l’abitudine quotidiana dei pendolari. E però traversando il Tejo al contrario, seduto contro un vetro che guarda la città che si avvicina con le sue balbuzienti luci gialle, mi viene da pensare a questi capitani fluviali alla guida di battelli della Transtejo, battelli che non sono neanche veri aliscafi di quelli che si alzano e sembra quasi decollino, ma catamarani senza fascino. Imbarcazioni che si chiamano con nomi di luoghi dell’interno del Paese – Alentejano, Palmelense – oppure con nomi di santi, São Jorge, São João, quasi fossero caravelle tenute al guinzaglio, destinate tutta la vita a non andare oltre l’estuario che sembrerà pure un mare, vero, ma è sempre un estuario di un fiume iberico, mica il Rio delle Amazzoni. Questi capitani, mi viene da pensare, sono persone tristi, ancorché esteriormente allegri per via delle “imperial” che si berranno ogni volta che attraccano, quando smettono il turno. Capitani che dovrebbero essere i legittimi discendenti dei Cabral, dei Magellano, dei Vasco da Gama, di tutta quella stirpe di naviganti e scopritori di questo Paese che esiste perché esiste il mare. E invece altro che caravelle, mari sconosciuti, spezie e mostri marini: se ne stanno tutti i santi giorni a far la spola tra la Margem Sul e la Margem Norte, tra Lisbona e i sobborghi, caricando pendolari addormentati, turisti eccitati, animi esausti da vite in movimento. Ingabbiati in questo ampio tratto di fiume, come quelle tartarughine nei terrari, costrette a sguazzare tutta la vita in tre dita d’acqua, all’ombra di una palma di plastica asfittica, stese al sole di una lampadina rossa su tre sassi di fiume raccattati chissà dove. Persone per cui la navigazione deve aver perso quel coefficiente di mistero che li aveva convinti, un tempo di ardori giovanili, a indossare la divisa. Persone che questa sera attraccheranno allo stesso molo, della stessa città di mare cresciuta intorno al fiume, che inizia a prender forma solo quando ci si allontana da lei.