Come tutti i tribunali monocratici, deve essere un po’ il regno del “tutto s’aggiusta”, lo juzgado di Palma di Maiorca. Non proprio in centro ma appena fuori, quindi vecchia da tempo ma non ancora del tutto antica, con l’entrata annunciata da una scalinata, sebbene breve, contornata da quattro colonne ma incassate nella parete, questa specie di pretura iberica accampa un minimo di solennità però senza cadere nel ridicolo. Del resto è Spagna fino a un certo punto, Palma di Maiorca. Scalinata, colonne e ingresso, per esempio, non stanno su una facciata. Il palazzo ha un retro ma non un fronte: è da uno spigolo che vi si accede. Sotto una delle finestre accanto all’ingresso, ad altezza di bambino, qualcuno ha istoriato dei graffiti. Sulla colonna del lato opposto si legge “Justicia divina”, ma le parole paiono tracciate da mani diverse, con la seconda, beffarda, a fare da controcanto. Al primo piano il palazzo è cinto da un balaustra cui forma e collocazione tolgono ogni velleità. Non è un balcone da discorsi, per capirci. Per ricordare che in quell’edificio si amministra la giustizia, benché bagatellare, qualcuno vi ha appeso delle bandiere al posto della biancheria.
Gli avvocati che entrano nel palazzo salgono gli scalini ricontando il resto del taxi. Probabilmente non principi del foro, piuttosto specialisti dell’“una mano lava l’altra”, artefici di un’opera di contenimento che ricorda quello della cintura della guardia giurata sulla porta. “Caballero”, mi spiega, “entrare, a meno di essere parti in causa, spiacente, non è possibile. Prima sì, – sorride mesto – ma sa, col covid…”. È invece perché non ci sono più posti liberi tra quelli riservati al pubblico che, nel tribunale vero e proprio, in pieno centro, una sua collega mi preclude l’accesso. Non può che lasciare ammirati una tale vigile partecipazione della cittadinanza all’amministrazione della giustizia. Voglio sincerarmene al punto da chiederne conferma. La risposta è scandita col tono con cui la polizia intima di circolare quando c’è un incidente: tra l’indispettito e lo sbrigativo. Non resta che rimirarlo da una delle panchine di fronte, il tribunale di Palma di Maiorca: se il gotico punta a incutere soggezione, il palazzo di Can Berga, come si chiama l’edificio in cui ha sede, invita a mettersi comodi. I porticati paiono sbadigli, merletti le ringhiere che col loro candore cingono il marrone del patio. A Palma di Maiorca è una specie di noce di cocco, il tribunale.
Sarà che nella piazza in cui ha sede si teneva il mercato, sarà che viene da immaginarvi sagre paesane. Sotto gli alberi c’è spazio per intere tavolate di empanadas, sul balcone per un’orchestrina. Se proprio qualcuno è colpevole, al massimo può pagare pegno e aprire le danze. A sbirciare oltre l’andito dell’entrata, i ballatoi fanno invece pensare al teatro del Corral, in cui nel 1500, in contemporanea coll’elisabettiano, ospiti e vicinato si affacciavano per assistere alle rappresentazioni. Sul lastricato, tuttavia, compaiono figure come in preghiera. Giudici nelle loro toghe, viene da supporre ad assecondare il parallelo tra processo e farsa, a patto di escludere fantasmi rimasti nel palazzo da quando fungeva da convento. Cioè prima che una famiglia nobiliare lo convertisse in residenza ufficiale apportandovi capitelli e fregi. Ma cosa facciano e decidano, con che criteri, quei giudici soffusi di luce mediterranea non è dato sapere. Magari si danno appuntamento al bar dietro l’angolo, quello che fa le ensaimada migliori della città, più o meno dove un tempo c’era il Tribunale della Santa Inquisizione.