Rivista di luoghi, storie e altro
Maloja Palace

Engadina, una Svizzera da cartolina

Da bambino avevo dei parenti alla lontana che abitavano in Svizzera. Ogni volta che venivano a trovarci portavano del cioccolato: spesso erano tavolette da 400 grammi, marca Frigor o Lindt, sempre al latte – il fondente ancora non era di moda – solide come un mattone che dovevi tagliarle con il coltello o mangiarne cento grammi con un morso. Spesso era un Toblerone, buonissimo e ambito, anche lì versione maxi, che oggi trovi solo nei duty free in Medio Oriente. Altre ancora, erano scatole di cioccolatini misti. Su quelle scatole di cartone rosso c’erano invariabilmente immagini di paesaggi svizzeri: laghi blu con battelli bianchi; immensi ghiacciai sempiterni e poi scene montane idilliache con mucche al pascolo su prati verdi, baite di legno, profili di vette granitiche, boschi di larici e abeti e ovviamente una bandiera rossocrociata accanto a quella del cantone. Allora avevo una passione più per le bandiere che per i cioccolatini, dunque dal mio prezioso libro Bandiere del mondo avevo scoperto che quella con lo stambecco e due quadrati bianconeri e giallo-azzurro era la bandiera del Canton Grigioni e che, mi aveva assicurato un amico dei miei che viaggiava tanto, quel paesaggio da scatola di cioccolatini era l’Engadina. L’Alta Engadina. Che poi stava a 50 chilometri da casa mia, in Valtellina, era sempre montagna, anzi erano proprio le stesse vette che vedevo dal terrazzo di casa – solo l’altro versante, il Nord –, ma ai miei occhi non era  una montagna così bella come quella della scatola dei cioccolatini. Non lo era allora, non lo è oggi. 

Foto © Tino Mantarro

Perché l’Engadina è come quelle compagne di classe di cui sei sempre stato innamorato ma non hai mai avuto il coraggio di dirglielo per paura di chissà che cosa: ogni volta che la vedi, anche a distanza di anni, lei rimane sempre la più bella. L’Engadina possiede quella perfezione estetica propria delle visioni celestiali, quasi fosse una Beatrice dei paesaggi montani, la quintessenza dell’idea stessa delle Alpi. Fitti boschi di conifere, tanti larici prossimi a ingiallire; venature di roccia grigia – granito – e verde – serpentino – sotto cime aguzze e innevate; le acque grigie e rapide dei torrenti; i ghiacciai lassù che vedi e non vedi, e poi laghi qui e là, il tutto con un incastro di colori che sembrano scelti con la sapienza di un pittore impressionista. E quei prati, così perfettamente verdi, così perfettamente rasati, così perfettamente pettinati da far venire il sospetto che il sospetto che dietro ci sia qualche organizzazione di giardinieri anonimi che nottetempo si preoccupano di raderli e sistemarli come si fa con certe spiagge di sabbia bianca nei resort di extra lusso. Bellissimo, indubbiamente, peccato che l’Engadina, o quanto meno l’Alta Engadina – quella che va dal passo del Maloja fino a Celerina e Zernez – ormai sia diventata proprio come quei resort: montagna extra-lusso. E dunque quando ci vado a passeggiare in cerca di fresco – perché lassù è comunque più fresco che giù da noi che siamo non in montagna, ma “tra” le montagne – finisco per fare un viaggio strano, a suo modo disturbante, come se entrassi in un film di Wes Anderson, o nelle pagine di Thomas Mann aggiornate al 2022, e mi sentissi fuori posto.

Questa volta l’idea che sia una montagna per ricchi mi viene quando, per evitare di pagare gli esosi parcheggi svizzeri da cinque franchi l’ora, mi fermo nei pressi di una piccola chiesa di pietra, con il tetto di zinco, la Chiesa Evangelia–Reformierte Kirche che sta a bordo strada, lungo l’Haupstrasse 3, l’unica strada che attraversa l’intera valle. Con la scusa di un momento di raccoglimento parcheggio all’ombra degli abeti, certo che anche se la lascio qui nessuno verrà a contestare in nome del Signore. E allora per ringraziare dell’ospitalità butto un occhio dentro, nell’ampia sala spoglia dove l’ambiente odora di pino mugo, il silenzio è eterno, i banchi ordinati secondo un sistema probabilmente cartesiano, così come sono ordinati i vangeli in quattro lingue tra cui il romancio, rilegati in pelle e appoggiati sue due tavoli all’ingresso. C’è un’unica apertura sulle pareti, un rosone discreto da cui entra una luce che ispira una santità leggera, primitiva, tutt’altro che barocca, ma viene il dubbio che sia l’effetto dell’altitudine. 

Foto © Tino Mantarro

A ogni modo questa chiesa riformata che offre parcheggio come fosse un drive–in della fede fa parte del grande progetto ottocentesco del Maloja Palace, un monolite di mattoni, legno e pietre che è la quint’essenza dell’albergo di lusso di fine ottocento in stile neorinascimentale. Un posto che assomiglia al Grand Budapest Hotel di Wes Anderson, o all’hotel di Ho servito il re d’Inghilterra di Hrabal, per cui dentro  immancabilmente ti immagini un mondo fatto di broccati e velluti, discussioni interessanti davanti a un bicchiere di cognac, passeggiate meditative da sanatorio e rilassatezza imperante. Che è quello cui doveva aspirare, a fine XIX, secolo il conte belga Camille de Renesse-Breidbach, il quale senza badare a spese, ma badando che fosse grande, grandissimo, immenso fece costruire il Maloja Palace. All’apertura, il 1 luglio del 1884, aveva 300 camere e 20 saloni. Rimase aperto solo cinque mesi per via di un’epidemia di colera. E da allora non ha avuto gran fortuna: aperto e chiuso a più riprese e sotto varie proprietà fino al 1934. Passato all’esercito svizzero come base per le annuali settimane di formazione dei riservisti. Per cui nell’empireo mondiale degli hotel di gran lusso questo albergo che domina il paesaggio non c’è e non c’è mai stato. Anche perché dagli anni Sessanta invece di ospitare i ricchi e famosi che venivano a svernare in Engadina (Sankt Moritz dista 13 chilometri), ospitava i malati di un’assicurazione belga, Christelijke Mutualiteit / Mutualité Chrétienne, che negli ultimi decenni portava gruppi di giovani per vacanze all’aria aperta sfruttando il treno diretto Bruxelles-Coira. Ora anche quei tempi sembrano passati, e davanti al Maloja Palace – dove non ho capito se si può transitare o meno, ma nel cui giardino sono finito – trovi parcheggiate Porsche Cayenne, Mercedes versione carrarmato e altre super auto, indice di apparente ricchezza. Eppure, in questa nuova vita, non sembra un hotel così sfacciatamente di lusso ma un misto tra un sanatorio e un palazzo staliniano di quelli che adornano il centro di Minsk. Ma l’hotel che anche se non proprio bello è comunque fuori dalla mia portata quanto a prezzi, non era la meta della mia passeggiata. Io volevo fare un giro del lago di Sils Maria, il primo dei laghi alpini della vallata, quello in cui si getta il fiume Inn quando è ancora bambino e le cui acque – questa cosa mi ha sempre affascinato – finiscono, dopo una serie di curve, laghi e travasi nel mar Nero. Ero alla ricerca della natura, e l’ho trovata: una natura extra-lusso.

Foto © Tino Mantarro

Ma soprattutto, al di là della perfezione assoluta dei vilette con i sassolini nel vialetto d’ingresso e i nanetti e le tendine di pizzo alle finestre e i gerani ai davanzali e le girandole colorate piantate nei vasi. Al di là delle indicazioni in legno verniciate di fresco, delle toilette chimiche altrettanto in legno, del paesaggio disegnato da un architetto di paesaggi, tutte cose cui ero comunque preparato, questa volta mi ha colpito la fauna umana che gravita intorno a questo lago. Lungo il primo tratto il sentiero è promiscuo, pedoni e biciclette. E qui le ragazze che incontri sono sempre bionde, sorridenti, abbronzate, con i capelli fluenti, atletiche, strette in vestiti sportivi perfetti e perfettamente abbinati nei colori. Come sono perfetti i maschi con cui si accompagnano, atletici, abbronzati, olimpici sulle loro biciclette gravel, invidiabili nella loro capigliatura che non si può scalfire e infatti il vento che tira forte non la scalfisce. E se hanno figli sono anche loro figli perfetti: sorridenti, già atletici a 5 anni, sicuramente poliglotti – ne ho sentiti usare tedesco, inglese e italiano nella stessa frase. E se sono figlie femmine hanno un pullover blu come nell’immaginario dei telefilm americani e una sacca da tennis sulla schiena anche se non stanno andando a giocare a tennis. 

Ma non ci sono solo le famiglie cosmopolite da rivista, nobili o presunte tali, sul lago di Sils Maria. Ci sono anche gli svizzeri, il popolo svizzero, che pure esiste. Per cui dopo un’ora di cammino beandomi della bellezza dei dintorni, della purezza dell’aria, dello splendore del cielo, sono arrivato in un punto che si chiama “isola”, ed è un promontorio piatto che si insinua nel lago, con un grande campo fiorito da cui spuntano qui e lì piccoli ciuffetti di canapa, recintato con un filo elettrificato perché guai a calpestare il sacro prato che le sacre mucche bruno alpine dovranno calpestare per produrre il latte con cui produrranno il cioccolato al latte che gli zii emigranti – magari dal Kosovo o dalla Zambia – porteranno in regalo ai nipoti. Ecco lì, sul promontorio che si insinua nel lago battuto dal vento, blu che ti ci tufferesti se non rischiassi un blocco intestinale, c’erano questi svizzeri che era sicuro che fossero svizzeri perché li ho sentiti parlare in tedesco svizzero, che è un tedesco oggettivamente brutto, che Goethe si sentirebbe male. Questi svizzeri erano arrivati con due barchette a remi con la targa Gr, Grigioni, ancorate sulla riva. Semi silenti questi svizzeri esponenti del popolo svizzero arrostivano dei bratwurst sul fuoco. E non si erano portati un barbecue, ma avevano fatto un falò sulla battigia, e le salsicce le avevano infilzate in dei rametti di legno, come fossero giovani marmotte. E a turno le scaldavano, mentre gli altri stavano seduti in ordinato silenzio su delle sedie a sdraio che avevano scaricato dalle barche. E avevano quelle facce un poco da nerd, con le camicie a quadri da grunge fuori tempo massimo, e la faccia sorridente, beata, con le labbra leggermente arcuate di quelle espressioni appena accennate. E sicuramente erano dei commilitoni della riserva svizzera, che si erano trovati per una gita del sabato. E allora mi sono riconciliato con il lago di Sils, se si possono arrostire salsicce su un fuoco libero allora non è un posto per ricchi, posso mangiare il mio panino comprato in Italia e bere l’acqua della borraccia riempita in svizzera. Ma è durato poco. 

Foto © Tino Mantarro

Perché mentre osservavo l’acqua grigia, ricca di sabbia, di un torrentello minuscolo che scivola via dal ghiacciaio che alimenta il lago, ho visto una coppia di nuotatori con muta e canottina che fendevano le onde con un crawl perfetto. E un minuto dopo c’era un’altra coppia che nuotava e li seguiva come se fosse una gara. E poi ho fatto qualche passo tra gli alberi, e dietro un’insenatura ho visto altri nuotatori, una dozzina che sfilavano coordinati e silenziosi come un’apparizione celeste. Lì sulla spiaggetta c’erano altri due anziani, che questa volta sembravano californiani, non svizzeri, con occhiali a specchio, cappellino da baseball, giubbotto da pescatore multitasche, avevano una bandierina in mano e fermavano i camminatori sul sentiero costiero. Accanto a loro c’era un ragazzo che stava chiudendo la muta, poi ha messo le scarpe da tennis in un sacco e si è buttato in acqua, mentre i pensionati californiani applaudivano per incoraggiarlo. Ho chiesto che cosa stessero facendo, e loro con calma, spiegazzando la parole in inglese come se dovessero parlare a un bambino, mi hanno spiegato che si tratta di una gara, una di quelle cose da supereroi che solo in posti come questo organizzano. Non ho capito il nome, ma è una specie di maratona mista: trenta chilometri di corsa, una dozzina nuotando, tutto a tratti alternati: un po’ corri, un po’ nuoti, un po’ corri. Insomma, un massacro. Stanchi di windsurf, vela e kite-surf, del polo sul ghiaccio, del bob e di qualsiasi altra diavoleria, in Engadina hanno alzato l’asticella della performance sportiva ancor più su. Altro che salsicce arrostite al fuoco.

Foto © Tino Mantarro

Tornando sui miei passi, verso la mia chiesa protestante, su una panchina di legno in riva all’acqua, una panchina piazzata in posizione strategica e fotogenica, ho visto due signori anziani seduti. Una coppia perfetta, con i capelli di un grigio che neanche Jean Fonda, seduta lì a contemplare contemplava l’acqua mossa dal vento, il profilo delle vette, e forse anche l’eternità. O forse non contemplava un bel niente, e stava lì con gli occhi chiusi, riscaldata dal sole, raffreddata dal vento a pensare al passato che non so perché immagino fatto di divani di broccato e macchine sportive, ma anche alterne fortune, fughe rocambolesche da paesi in guerra e nipotini lontani. Allora ho avuto forte il sospetto che quelle come tutte le altre fossero comparse pagate dall’ufficio del turismo locale per far sembrare quel lago un luogo idillico per giovani famiglie ricche e pensionati altrettanto benestanti.

E mi è venuto da pensare a Nietzsche che su questo lago, in un villaggio allora di pastori, ha trascorso lunghe estati. «Qui mi piace stare sdraiato – diceva –. Qui mi vengono i pensieri migliori». Avrei voluto fare come lui, ero andato lì per quello. Ma quel sabato ho capito che io, io che parcheggio una Captur a scrocco davanti a una chiesa, io che porto un panino dall’Italia, io che passeggio senza aspirare a salire sulle vette, io non sono benvenuto in quel paesaggio. E i cioccolatini della mia infanzia mi sono subito parsi indigesti.

Condividi