Rivista di luoghi, storie e altro
Kalyazin. Volga River. Bell tower of Saint Nicholas Church (Photo Alexxx1979)

Sul Volga a bordo del Feliks Dzeržinskij

Nel luglio del 2001 partecipai a un insolito convegno dedicato allo studio della provincia russa. Si svolse su un battello che navigava lungo il Volga, anzi lungo la Volga, vista la portata della sua natura femminile nella mitologia russa che la riguarda. Il congresso itinerante condusse una quindicina di studiosi russi e italiani a intraprendere la navigazione del grande fiume su una motonave ancora denominata Feliks Dzeržinskij, il fondatore della Čeka, la prima polizia segreta russo-sovietica (nonostante fossero passati già dieci anni dal crollo dell’URSS). L’organizzatrice era Tat’jana Vladimirovna Civ’jan, una delle menti più raffinate e colte di Russia. Partimmo dal porto fluviale di Mosca, quello inaugurato da Stalin nel 1937 e, lungo il canale coevo altrettanto staliniano che collega tuttora i corsi dei fiumi Moscova e Volga, procedemmo tra chiuse e statue in puro stile real-socialista fino a immetterci nella corrente del più lungo corso d’acqua del paese.

Canale e porto furono realizzati tra il 1931 e il 1937 per garantire alla capitale un più adeguato approvvigionamento idrico, per integrare gli interventi di riadattamento del corso del fiume Volga e, mitologicamente, per portare le sue leggendarie acque a lambire l’altrettanto leggendario Cremlino. Si calcola che una forza lavoro compresa tra i 600.000 e 700.000 detenuti sia stata impiegata nell’edificazione, ovviamente spacciata dalla propaganda come cantiere di costruzione del socialismo in cui si provvedeva anche, prodigalmente, alla riabilitazione di alcuni elementi devianti grazie alla taumaturgica attività lavorativa. Le chiuse sono undici, tuttora in funzione, e ugualmente spettacolari per efficienza tecnica, maestosità architettonica, scenografia paesaggistica. In piena notte ci alzammo per assistere al passaggio della prima chiusa e nessuno tornò a dormire finché le operazioni non furono completate.

Gian Piero Piretto e Tat’jana Civ’jan durante una seduta del convegno sul Volga, luglio 2001

Le sedute di lavoro del convegno si svolgevano a bordo nelle ore di navigazione. Quando il battello attraccava, scendevamo a terra per visitare villaggi e cittadine che serbavano atmosfera e stile di una Russia provinciale, fuori dal tempo.

Avevamo preso le mosse da strutture frutto della più eclatante Unione Sovietica e, dopo poco più di una notte di viaggio, raggiungemmo la Russia oleografica ma attraente delle cupole a cipolla, delle strade sterrate, dei borghi periferici e ancora arcaici, nonostante si fosse nel 2001. Rybinsk, Uglič, Kaljazin, Myškin, Plës, Kostroma sono alcuni dei centri che visitammo. Posti dove il paesaggio russo, le costruzioni di epoca zarista, convivono in modo quasi stupefacente con la severa e appariscente architettura sovietica. A dominare l’impatto emotivo su questo fronte fu sicuramente la realtà del bacino di Rybinsk, rybinskoe more (mare di Rybinsk) secondo l’altisonante denominazione propagandistica. Fra il 1935 e il 1941 si realizzarono i lavori per la costruzione della centrale idroelettrica di Uglič che avrebbe visto nascere un lago artificiale di 4.580 km² (ultimato soltanto nel 1947) sotto le cui acque furono sacrificati diversi paesi e villaggi. La portata promozionale dell’operazione fu immensa: grazie all’intervento staliniano di trasformazione della natura, la Volga diventava integralmente navigabile, senza più secche e necessità di ricorso agli alatori, i servi della gleba impropriamente noti come “battellieri del Volga”. Immortalati da Il’ja Repin in un famoso quadro ottocentesco nonché protagonisti di una delle canzoni più note della tradizione popolare russa, i battellieri erano condannati a trascinare a vita imbarcazioni arenate nei banchi di sabbia dei fiumi o carichi pesanti in generale. “Ej, uchnem!” (Su, tiriamo) recita giustappunto il ritornello del maestoso e tragico canto di lavoro. Il sogno vagheggiato dallo zar Pietro I il Grande diventava realtà per merito di Stalin, “amico, guida e maestro”.

Una strada sterrata di Plës con resti di complessi monastici, luglio 2001 © Gian Piero Piretto

La testimonianza più manifesta e spettacolare di quella realtà è sicuramente la storia legata al centro storico di Kaljazin, sommerso completamente per la realizzazione del bacino artificiale. Resta soltanto la sommità del campanile che tuttora svetta al di sopra della superficie del lago. I lavori per l’edificazione del complesso – si trattò anche in questo caso di un campo di lavoro forzato (GULag) – si protrassero dal 1935 fino al 1955. Già nel 1941 la struttura vantava il secondo posto per grandezza tra le centrali idroelettriche sovietiche.

La primitiva natura mercantile di molte delle cittadine emergeva nei residui di imponenti complessi commerciali e di solide residenze di mercanti, testimoni di un fasto vissuto ma appassito nei decenni. Malferme case di legno dai colori pastello con merlettature traforate evocavano le sghimbesce abitazioni di Chagall. Improbabili statue di Lenin ancora si ergevano indisturbate, dimenticate dalla furia iconoclasta post-sovietica e, a loro volta, impolverate dal trascorrere della storia.

Empori fuori dal tempo aprivano le loro porte ai pochi acquirenti. Piccoli musei locali offrivano toccanti testimonianze di micro storia: il museo dei topi a Myškin (myš’ in russo significa topo), il museo dei valenki (gli stivali di feltro), il museo-appartamento del pittore Levitan a Plës, il museo della vodka, resti di monasteri ancora in stato di abbandono o chiese trasformate, secondo il costume sovietico, in magazzini o centri sportivi.

La statua di Lenin a Myškin, luglio 2001 © Gian Piero Piretto

Ciò che maggiormente mi colpì fu l’atmosfera che regnava in quei luoghi. Il tempo era rarefatto, il ritmo della vita rallentato rispetto alle frenesie metropolitane, la bellezza naturale, quando non violata dalla mano umana, esplodeva in forma di colori e scenari sublimi. Anche lo stato di decadimento in cui si trovavano edifici e strutture istituzionali contribuiva a suggerire l’idea di lontananza, di distacco. L’incuria, che non sconfinava nel degrado o nello squallore, si addiceva a quell’angolo di provincia russa. Lungo una delle strade-sentieri incrociai una donna che portava secchi colmi d’acqua reggendo sulle spalle un bilanciere. Si fermò per chiedermi se venissi da Mosca. Senza attendere la mia risposta commentò: «voi moscoviti venite qui per comprare le nostre case, ma noi non le cederemo». E proseguì il suo percorso. Significativo segnale di avversione al “nuovo” che avanzava, dal suo punto di vista, in termini di invasione e appropriazione del territorio. Mi tornò alla mente il conflitto čechoviano tra vecchi proprietari e nuovi villeggianti magistralmente reso nel Giardino dei ciliegi. Bevvi un rinfrescante boccale di kvas, ancora spillato dalla botticella di metallo piazzata su ruote, a fianco di una bancarella che vendeva moderni dolcetti post-socialisti e mi addentrai nel gostinyj dvor (centro commerciale) alla ricerca di memorabilia sovietici.

La botticella del kvas a Rybinsk, luglio 2001 © Gian Piero Piretto

Oggi, a vent’anni di distanza, non so immaginare quanto possano essere cambiati quei paesi. I “moscoviti” hanno probabilmente fatto incetta di case e trasformato semplici residenze contadine in pretenziosi cottage di dubbio gusto. Le vie saranno costellate da automobili di potente cilindrata. Il turismo avrà portato animazione e incrementato il bilancio di quei comuni, al contempo ibridandone la cultura e infrangendo la consegna di immobilità che per secoli era stata propria della provincia “lontana” da Mosca. O forse l’incuria ha vinto e antiche dimore, già segnate dalla fatica di vivere secolare, si saranno mutate in macerie che delle antiche rovine non hanno più né il fascino né la portata. La storia non può essere fermata, per suggestivo o atroce che sia l’incanto o l’incubo di un passato vagheggiato o demonizzato su basi di estetismi superficiali.

La lentezza del percorso (anche l’incedere del battello era calmo e solenne), i panorami di bellezza mozzafiato, i contrasti estetici e antropologici, la gradevolezza e la qualità della compagnia, il pesce affumicato acquistato dai marinai e consumato sul ponte in piena notte, l’interesse delle sedute di un convegno così sui generis, lo straordinario gioco delle monumentali chiuse socialiste rimangono tra i miei più eccezionali ricordi di Russia. Il tema del mio intervento al convegno fluviale fu tautologicamente l’analisi del film Volga Volga, il musical sovietico di Grigorij Aleksandrov del 1938 prediletto da Stalin, esaminato in relazione agli interventi compiuti da Stalin stesso sul corso del fiume.

Era uscito in assoluta contemporaneità con l’inaugurazione delle nuove strutture e ne celebrava, in termini leggeri ed emotivamente coinvolgenti, la grandiosità e l’efficienza opponendo, in maniera piuttosto semplicistica ma di facile e immediata comprensione, il vecchio al nuovo, l’ancora arcaica provincia alla rutilante vivacità della capitale. Oggi colpisce per i molti tratti di vistosa ingenuità e smaccata propaganda, ma all’epoca costituì un successo travolgente, un ragguardevole esempio di proselitismo politico veicolato in musica.

Il film Volga, Volga (1938) in versione originale con sottotitoli in inglese

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