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Pico del Teide, Tenerife

Un’affollata Atlantide: pensieri sul Teide

Seduto su una roccia lavica alla base del Pico del Teide, il vulcano-totem dell’isola di Tenerife, mi sento avvolto da una piacevole mollezza. Tremilacinquecento metri ma lo sguardo osa ancora più su, contemplo il sentiero che sale alla sommità del cono su cui arrancano pochi camminatori. Li ammiro con invidia sempre più flebile, man mano che l’altitudine mi ovatta i sensi. Non ho prenotato online il pass richiesto dal Parque Nacional del Teide che, opportunamente, limita a 200 il numero giornaliero di conquistatori della vetta, il cratere sommitale, dunque non salirò ai 3718 metri di quota. Ma va bene così, niente performance in questo paesaggio meravigliosamente straniante, è una giornata tersa che fa quasi male agli occhi seguire con lo sguardo il profilo di creste e pinnacoli sullo sfondo di un blu assoluto. È metà novembre e la temperatura quassù non supera i quattro gradi, eppure sto bene in camicia sotto il sole del mezzogiorno, al cospetto di un orizzonte che smuove i pensieri. C’è l’Atlantico sullo sfondo, una vasca infinita pennellata di un azzurro più intenso rispetto a quello del cielo, e quel puntino in lontananza dev’essere La Gomera, l’isola a sud-ovest di Tenerife, la più vicina in linea d’aria. La costa si percepisce appena nella sua geometria incerta, il bruno delle sabbie che contrasta col bianco della risacca. Nel cielo, poco sotto i miei piedi, una striscia di nuvole pannose delimita la fascia verde cresciuta sulle colate laviche più antiche, così antiche che hanno lasciato il tempo di ambientarsi prima ai cactus e alle piante grasse – alcune endemiche dell’isola – poi addirittura ai pini canari, ai castagni, alle latifoglie che nella Valle di Orotava, duemila metri più in basso, formano una foresta fittissima, lussureggiante. Infine alle quote più alte, cioè tutt’intorno a me, c’è un deserto di roccia multicolore modellato dal vento e dalla neve, dal tempo e dal destino.

Foto © Michele Lauro

Niente vetta dunque, mi accontento di una camminata a mezza costa sul sentiero che porta al belvedere del Pico Viejo, un cratere laterale del Teide a 3134 metri di altezza. Sono 750 metri in leggera discesa, li percorro imbambolato da un’euforia ipossigenata canticchiando una vecchissima canzone di Neil Young che si addice al paesaggio: oh to live on Sugar Mountain, with the barkers and the coloured baloons… La Montagna di Zucchero che mi circonda è un luna park psichedelico di mille forme e colori che cambiano a seconda della composizione della roccia basaltica, e soprattutto dell’età della lava. Le colate recenti sono quelle più scure, mentre col tempo l’ossidazione dei minerali fa assumere alle rocce una colorazione rossastra che infine il sole tende a far somigliare a se stesso: un giallo che abbaglia. Si riconoscono formazioni bizzarre come le guglie appuntite delle Roques de García, le lingue di cenere che hanno modellato i fianchi del massiccio come il sottile canalone detto Corbata del Teide, e ancora gas sublimati sotto forma di massi giallastri, pareti rocciose e pietraie, pianure di magma solidificato, coni secondari creati dalle esplosioni. Una scuola di geologia a cielo aperto, rinforzata dai pannelli didattici che l’ente parco ha disseminato sui belvedere. Il Pico Viejo, 800 metri di diametro, è rimasto attivo per migliaia di anni prima di assopirsi dopo l’ultimo grande botto nel 1798: un’eruzione durata 92 giorni su un’area di cinque chilometri quadrati, seguita da un paio d’anni di terremoti e esplosioni. Trasportati dal vento, i frammenti di roccia sono atterrati perfino sulle isole di El Hierro e Gran Canaria. Dura una mezz’ora la passeggiata al belvedere, dunque dovrei farcela a stare entro l’ora di escursione compresa nel biglietto A/R della funivia. In realtà non ho nessuna voglia di tornare, la piacevole mollezza mi sorprende e risalire col fiatone a ritmo di lumaca è una fatica anche mentale. Mi fermo una volta, due, tre, il tempo si sfarina e lo zolfo mi solletica le narici… 

Foto © Michele Lauro

Le caldere assopite di Tenerife hanno alimentato il mito di Atlantide, mi viene da pensare mentre infilo la mano dentro una fumarola. Come tanti altri luoghi fra cui, al centro dell’Egeo, la bella Santorini, che infatti rivendica di aver ispirato Platone. Tuttavia nei dialoghi del Crizia il filosofo ateniese parlava di un’isola «davanti a quella foce che viene chiamata, come dite, Colonne d’Eracle». Cioè lo Stretto di Gibilterra, e le Canarie si trovano proprio in mezzo all’Atlantico, tappa fondamentale per i grandi navigatori che varcavano lo Stretto per circumnavigare l’Africa o attraversare l’oceano verso le Americhe (lo stesso Cristoforo Colombo vi fece scalo ponendo le basi per la colonizzazione spagnola, che poi soppiantò le originarie popolazioni di origine berbera). Uno a uno palla centro, nella partita leggendaria fra due colossi del turismo che hanno come primo scopo attirare gente. E se i miti sono una potente leva seduttiva, quello del continente perduto è addirittura un archetipo universale, usurato ma intramontabile. Perché rimanda – reminiscenza forse dello stato intrauterino – alla nostalgia di una perfezione felice: qualcosa che non abbiamo mai conosciuto ma di cui conserviamo misteriosa memoria, come una terra di pace e bellezza, abbondanza e giustizia. Oh se Platone avesse potuto vedere la nuova Atlantide che è oggi l’isola di Tenerife, questo mi viene da immaginare seduto su un pezzo di lava scaldato dal sole: l’isola spagnola a due passi dai Tropici, l’isola dell’eterna primavera con una densità abitativa tre volte quella della Spagna, l’isola dei lungomari affollati 365 giorni l’anno da pensionati e vacanzieri, manager in trasferta e capelloni sfaccendati, palestrati e convalescenti, avventurieri e nottambuli, coppie di neogenitori o neononni con passeggino e surfisti con tavola sotto braccio…

Foto © Michele Lauro

C’è spazio e godimento per tutti, a Tenerife. Il turismo di massa qui ha raggiunto un livello di sofisticazione elevatissimo, neppure il Covid sembra averlo scalfito, anzi l’isola ha costituito durante il lockdown il quartier generale di certi europei che vi hanno trovato una sede di lavoro assai più smart e confortevole di quella di casa. D’altra parte la connessione arriva dappertutto e di case ce n’è un’esagerazione. La cementificazione selvaggia delle coste non si è mai fermata dagli anni Settanta, specie a sud dove il clima è più stabile e il vento meno ossessivo, anche se oggi si fa attenzione a preservare i tratti pregiati rimasti immuni, come la Punta de Teno all’estremità nord-occidentale e i Monti Anaga a quella nord-orientale. Insomma Tenerife è una specie di Second Life in carne ossa e cemento, per rubare una spietata definizione di Dubai trovata in Tropicario italiano di Fabrizio Patriarca. Solo che rispetto al pacchetto lussuoso ma incandescente di Dubai le Canarie – graziate da una natura lussuriosa e abbondante (all’ortofrutta puoi trovare manghi papaye banane in un banco, e nell’altro castagne, mele, frutti di bosco…) – incorporano nell’offerta turistica totale anche esperienze di wilderness tutto sommato autentiche. E ben confezionate, come la gita al Teide che infatti fanno in moltissimi – c’è chi nonostante le avvertenze sale in infradito, perfino a novembre. È un’avventura cioè alla portata anche dei sedentari incalliti che non si schioderebbero mai dalla piscina del loro mega-resort stile Las Vegas sul lungomare di Playa de Los Americas.

Provo a immaginare: alle 8 di una mattina qualunque puoi salpare in kayak dalla spiaggia nera di Los Cristianos per una pagaiata con guida in mare aperto, fino alla profonda depressione che attira balene e delfini e gitanti su ogni imbarcazione possibile (avvistamenti garantiti). A mezzogiorno dopo una doccia puoi inforcare una moto o un’auto per risalire la costa occidentale fino agli Acantilados de Los Gigantes, fermarti per un picnic davanti alle spettacolari falesie a picco sull’acqua e poco dopo digerire sui tornanti del Parco del Teide, attraversando pinete che sembra di essere di Svizzera. Ci vuole meno di un’ora – da qui come più o meno da ogni punto dell’isola, se non hai un mezzo molte agenzie vengono a prenderti e riportarti in albergo, dovunque ti trovi – per arrivare alla partenza della funivia. E la funivia, se hai prenotato online il minuto della salita, senz’altra attesa ti porta in otto minuti da 2500 a 3500 metri di quota, stipata di escursionisti appiccicati come te ai vetri della cabina  disinfettati a tempo record a ogni pit stop.. 

Foto © Michele Lauro

Estraggo la mano dalla fumarola e so anch’io di zolfo, adesso, o forse è solo un po’ di vertigine. Non ero mai stato così in alto e, com’è noto, l’altitudine richiederebbe un certo adattamento. Forse è per questo che ti chiedono di scendere dopo 60 minuti: in un’ora il corpo (o è il cervello?) non fa in tempo ad accorgersi di essere schizzato da 0 a 3500. Mi metto in coda per la discesa giocando alle latitudini immaginarie come fa Silvia, la protagonista del romanzo che sto leggendo, La felicità del lupo di Paolo Cognetti: salire di mille metri sulle Alpi, dice, equivale a spostarsi verso Nord di mille chilometri. Come andare a Londra o a Berlino. Salire a tremila invece è come trovarsi al Circolo Polare Artico. Ma allora salire a tremilaecinquecentometri nel mezzo dell’Oceano Atlantico, poco sopra il Tropico del Cancro, a cosa equivale? Un dilemma che negli 8 minuti sospesi a un cavo d’acciaio finisco per dimenticare, anzi per deglutire insieme alla saliva. Per fortuna 1000 metri più in basso la stanchezza si smorza, la mente rischiara, il paesaggio resta abbacinante e torna solitario. La gente riparte in auto o si sparpaglia fra i monoliti lavici, in radure che non hanno nulla da invidiare ai set marziani ricostruiti in studio. Mi fermo anch’io, c’è ancora tempo prima di rigettarsi tra la folla del lungomare, nel rituale mojito tour che anticipa la sera.

NB. Per gli amanti delle distanze, o dei sogni, 3500 chilometri in linea d’aria a nord di Tenerife c’è la costa meridionale della Groenlandia, Reykjavík dista più o meno 4000 chilometri.

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