L’avevo già detto la prima volta che ci avevo trascorso tre giorni, qualche anno fa. Era giusto vederla, non sopportarla e mai rimetterci piede. Poi capita un invito per tornare negli Stati Uniti con un visto speciale quando ancora le frontiere per i cittadini europei sono serrate. Invito per la fiera del turismo americano, nota anche come International Pow Wow, che ogni anno cambia sede. E la sede per il 2021 è Las Vegas. Il dilemma morale di dover decidere se smentirmi o infilarmi, questa volta consapevolmente, in quel girone infernale, passa subito pensando all’opportunità di regalarmi un breve ma indispensabile viaggio on the road da Los Angeles al deserto del Nevada e viceversa. Non mi riesce facilissimo abbandonare la spiaggia di Malibu. Temporeggio, cerco la giusta colonna sonora, pulisco bene gli occhiali da sole, mi tengo la sabbia sui piedi e sulle infradito. Inforco una highway e tengo d’occhio tachimetro e termometro. È la seconda metà di settembre ma i Fahrenheit salgono piuttosto rapidamente. Mai saputo fare il calcolo, quel che è certo è che dai 75 della costa californiana si passa in tre o quattro ore agli 85. Cerco su Spotify una compilation a tema. Dalla ovvia Viva Las Vegas di Elvis non so perché passa a Enjoy the silence dei Depeche Mode. Ma forse per cinque giorni ci dovrò rinunciare.
Arrivo in città che è quasi il tramonto. Quando mi rendo conto che starò nell’unico hotel dello Strip senza casinò quasi abbraccio la concierge per la gioia. Lei ricambia mettendomi al 33esimo piano, dove, a suo dire, c’è la miglior vista possibile. In effetti da lassù mi godo lo spettacolo delle fontane del Bellagio, quelle di Ocean’s Eleven per intenderci. Le prime 27 volte è bello. Poi alle incessanti esplosioni acquatiche viene voglia di staccare la spina. Ma non ho tempo da perdere a Las Vegas. Ho un invito a cena da parte di un’amica francese, anche lei in città per la fiera. Andiamo in un ristorante italiano all’interno del Ceasar’s Palace. Mi perdo nella lobby. Incenerisco chiunque non abbia la mascherina (obbligatoria nei casinò). Indosso il maglione perché l’aria condizionata uccide. Alla cena ci trattano come dive, ma è giusto così, lei è un’influencer, io scelgo i vini. Quando a metà cena ho voglia di una sigaretta mi sposto poco più in là, mi siedo davanti a una slot machine e faccio finta di giocare. E fumo. Al chiuso. Con un bicchiere di vino in mano. Normale nella bolgia infernale. Vorrai mica smettere di giocare per i 5 minuti di una pausa sigaretta? Io però non gioco. L’amica influencer ha anche i biglietti per la ruota panoramica. Come dire di no? Mezz’ora di noia lentissima e freddo glaciale ma il panorama notturno fa capire un paio di cose di Las Vegas: è grande e illuminata. Troppo illuminata. Dello spreco energetico se ne fregano qui. Come se ne fregano di tutte quelle regole che altrove negli Stati Uniti sono ormai assodate: no fumo, no alcol, no party. Nel recinto dello Strip invece vale tutto, incluse nudità varie, balli improvvisati, e deiezioni casuali. È tra quelle che devo camminare all’una di notte (che potrebbero essere anche le sei di sera per la quantità di persone in giro) per tornare in hotel. Giusto in tempo per vedere un altro paio di spettacoli delle fontane laggiù in basso.
L’indomani mattina mi alzo di buonora e decido che alla fiera ci vado a piedi. Il buon vino italiano bevuto a cena deve aver cancellato dalla memoria che, come avevo visto dall’alto, Las Vegas è grande. E fa caldo anche alle otto di mattina. Quando mi ritrovo su un vialone a cinque corsie per senso di marcia sotto il sole cocente mi è chiaro che è un’idea di merda. Arrivo al convention center (immenso) fradicia ma appena entro, previa scansione del green pass, il sudore mi si ghiaccia addosso. Nei giorni successivi riuscirò a scovare vetrate soleggiate dove scaldarmi e mapperò ogni toilette per eventuali disagi intestinali. Nel giro di poche ore mi trovo ad assistere allo spettacolo di un mago che ha vinto qualche reality, a saltare attaccata a un elastico da una torre alta 700 piedi (solo perché non sapevo che son 350 metri, la Tour Eiffel son 300 metri, per dire), a degustare whisky prodotto localmente nel sottomarino di Monsieur Zissou, a mangiare hamburger otto strati e a parlare con persone di nazionalità varie a bordo piscina, mentre in acqua si esibiscono improbabili e improvvisate sincronette.
Dopo 24 ore in città mi ritengo a posto. Sarei pronta a tornare a Malibu, o almeno a Santa Monica. Anche Venice Beach andrebbe benissimo. E invece ho appuntamenti tipo speed date (quindici minuti e suona la campanella, ci si sposta di tavolo: altro giro e altra corsa) per conoscere i PR e gli uffici stampa di stati e destinazioni americane. Un viaggio virtuale di quello che potrebbe essere il viaggiare negli Stati Uniti prossimo venturo. Incontro anche chi si occupa della comunicazione di Las Vegas. È a lei, che fa Mary di nome, che chiedo cosa fanno i locals per sentirsi in una città normale. È felicissima di svuotare il sacco. C’è una città oltre lo Strip, dice. O quanto meno alcuni quartieri “normali” dove ci sono ristoranti “normali”, negozi “normali”, persone “normali”. Mi ci fiondo (ancora una volta a piedi ma mi devo scaldare) e arrivo in quello che con un po’ d’esagerazione chiamano Art District. L’art in questione sono graffiti, molto belli, ma anche pazzeschi vintage store dove la formica color pastello vince su tutto. Per qualche ora mi sento meglio, sorrido a tutto e tutti. Mi sembra di aver trovato l’eldorado, di aver scoperto un angolo remoto dell’Amazzonia, di aver scovato l’ultima frontiera. Son quattro vie in croce ma ci torno anche il giorno dopo perché mi ero persa una libreria bellissima, Writer’s Block, dove riesco a comprare un libro sulla storia di Las Vegas e uno sulla storia di Wonder Woman (il fumetto, non la serie tv anni Settanta). Quando rimetto piede sullo Strip, a bordo di un Uber, sorrido ancora e cerco di mantenere il flusso positivo di pensieri anche nel costante turbine che mi sembra incosciente. Voi non capite che cosa vi state perdendo, mi verrebbe da urlare. Ma non mi sentirebbero.
Nei giorni successivi è tutto un alternarsi di incontri di lavoro e ulteriori esplorazioni. Trovo la vecchia Las Vegas se possibile ancora più marcia della nuova, con le lampadine di hotel e casinò un po’ ammaccate. Scovo le famose wedding chapels che sono persino carine, come lo sono i due ragazzi che stanno entrando di corsa per dire il fatidico sì, entrambi una t-shirt con farfallino. Mi imbatto anche nel super televisivo Gold & Silver Pawn Shop, il banco dei pegni di Affari di famiglia, che è incredibilmente più piccolo di quanto immaginassi. Volendo è possibile anche chiamare, a pagamento, il proprietario Rick Harrison per fare una sorpresa al telefono. La chiamata me la risparmio, ma mi fermo al bar accanto (sempre della famiglia che ha ampliato il business) per osservare i tanti curiosi che sono un po’ la sintesi dei turisti di Las Vegas. Ogni colore, etnia, identità sessuale, ricchezza, stile, tante famiglie senza bambini (pare essere kids free Las Vegas, ma forse è meglio così). Si tolgono la mascherina per farsi un selfie. Se la rimettono per entrare. Escono tendenzialmente a mani vuote eppure contenti di aver visto dal vivo un sogno. Poco importa che un banco dei pegni sia per definizione un luogo dove si abbandonano ricordi e preziosi in cambio di soldi spesso spesi poco più in là, a un tavolo da gioco o davanti a una slot machine. In fin dei conti Las Vegas può essere un’oasi o un miraggio. Ciascuno la vive come vuole. Io non vedo l’ora di guardarla dallo specchietto retrovisore.