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Fo Guang Shan Buddha dorato

Un luna park della fede a Taiwan

C’è qualcosa di sacro sciolto nell’aria, sembra una sorta di volatile incenso. Al monastero Fo Guang Shan si respira una religiosità quieta e fantastica, fatta di silenzi e meditazioni, orazioni ripetute e sorrisi accennati. Anche se le statue del Buddha assomigliano a buffi personaggi dei cartoni animati giapponesi, con tratti infantili e giocosi, sembra tutto tremendamente serio. Così alle sei meno un quarto del mattino, a digiuno perché così è la regola, lasci la tua cella monacale che ricorda una singola con bagno in uno di quegli alberghi a basso prezzo che si trovano lungo le autostrade francesi, tutto formica e plastica, e ti metti rispettosamente in coda. Non giovani, non vecchi, di quell’età indefinita e indefinibile che hanno spesso gli orientali, i monaci silenti camminano allineati neanche fossero inglesi alla fermata del bus. Attraversano giardini lindi e geometrici, i vialetti ortogonali asfaltati e le siepi rigogliose. Da ultimi della fila, il posto che spetta ai laici in visita, li si segue a passi lenti e cadenzati, entrando nella grande sala tappezzata di centinaia di statuine dorate del Buddha seduto con le gambe raccolte. Vieni quasi rapito dalla scena di una sola moltitudine di uomini e donne dal capo rasato e gli abiti svolazzanti – giallo ocra i monaci, grigio piccione le monache – che recitano le preci rivolti alle tre grandi statue del Buddha contornate da candele al led. Il tutto è assai psichedelico e poco mistico, però ha lo stesso il suo fascino non discreto. Sembra una delicata sessione di risveglio muscolare, accompagnata da una musicalità leggera, scandita dal battito di un tamburello e interrotta da un gong che riporta bruscamente alla realtà. È passata mezz’ora ed è il momento della colazione. Avvolti nello stesso silenzio, sempre in coda, si entra in un padiglione immenso che sembra una palestra delle scuole medie. Per terra, allineate come una scacchiera senza fine, scodelle, bacchette e un bicchiere di metallo. Uomini da un lato, donne dall’altro. Si mangia riso, spinaci, fagioli e porridge. Si beve tè verde. L’unico rumore è il ticchettio delle ottocento paia di bacchette. Parlare è vietato.

Foto © Huicheng1967 – CC BY-SA 4.0

A Dashu, non distante da Kaohsiung, nella parte Sud-ovest dell’isola di Taiwan, a prima vista il monastero Fo Guang Shan pare tutto fuorché un luogo di raccolta spiritualità. Sarà che il nostro immaginario dei monasteri buddhisti è dominato dalle idee, seppur vaghe, delle austere strutture tibetane perse nelle loro mistiche altezze. E allora pensiamo a templi di roccia costruiti su erte montane, con le possenti pareti dipinte di rosso cremisi, lo spirito dei tempi incrostato sui muri, la polvere depositata sui tappeti, l’odore del burro di yak incollato su ogni cosa, l’Oṃ Maṇi Padme Hūṃ registrato nelle orecchie, ripetuto all’indefinito come l’annuncio delle fermate nella metropolitana che si prende ogni mattina. Il tutto immerso in un ambiente di alte vette e nevi perenni, da riedizione orientale del Nome della Rosa. E invece questo posto immenso, che si estende su oltre cento ettari, è tutto fuorché esteticamente spirituale. E poi si trova in pianura. Per quanto sia monumentale, e a prima vista artificiale, sembra qualcosa a metà tra un parco giochi ispirato alla Cina dei tempi andati e un moderno aeroporto. Il viale che porta alla grande statua del Buddha è una sorta di Champs-Élysées, invece degli alberi ci sono otto grandi pagode, quattro per lato; invece dei negozi, statuette votive e vialetti che portano a una specie di piramide, un misto tre le architetture moderne alla Gregotti e un tempio Maya. Oltre c’è il grande Buddha di 36 metri. Sta ritto in piedi, con le mani giunte, come a scusarsi delle sue dimensioni vergognosamente enormi, talmente eccessive che è la statua del Buddha più alta di tutto il sud est asiatico.

Foto © Bernard Gagnon – CC BY-SA 4.0

Abituati come siamo alla patina della storia che nobilita ogni cosa, fa un poco effetto trovarsi nel più grande monastero di Taiwan e scoprire che è una costruzione dannatamente recente. Del resto l’ordine cui appartiene, il Fo Guang Shan, è stato fondato dal venerabile maestro Hsing Yun intorno al 1952. Per cui se l’ordine ha poco più di sessant’anni, questa struttura di anni ne ha ancora meno e l’umidità tropicale non ha ancora corroso e reso a suo modo affascinante l’insieme di palazzi, immense statue, simmetriche pagode e giardini. Fondato nel 1967 su un terreno di campagna che fronteggia il fiume Kaoping, il monastero è un po’ il Vaticano del Fo Guang Shan. Nome che tradotto letteralmente ha quella poeticità figurata e melensa tipica del cinese: suona come “montagna di luce del Buddha”. Ma ovunque è noto come International Buddhist Progress Society o con il più filosofico Buddhismo umanista: uno dei tanti rivoli del Buddhismo che enfatizza la meditazione come pratica del cammino verso l’illuminazione. Una pratica, la meditazione, che si unisce a un altro pilastro, l’Amidismo o Buddhismo della Terra Pura, che insiste più sulla disciplina spirituale. Ma se nella tradizione del Buddhismo Mahayana la disciplina doveva permettere ai seguaci di rinascere dopo la morte entrando nella catena delle reincarnazioni per portare – si spera –  all’illuminazione, il Buddhismo umanista ha un’accezione ben più terrena. L’illuminazione può avvenire anche su questa terra, non in un remoto paradiso: per cui quotidianamente i seguaci interpretano la loro missione come un percorso verso l’illuminazione. Lo fanno concretamente partecipando alla vita sociale (ma non politica) taiwanese e non solo, visto che hanno quasi 200 monasteri sparsi per il mondo. Puntano sull’educazione – l’ordine ha quattro università –; la cultura – posseggono radio, case editrici e giornali –; la filantropia – ospedali e orfanotrofi – e la protezione ambientale. Con il suo milione di praticanti Fo Guang Shan è solo una  delle declinazioni del Buddhismo nella Repubblica di Cina. Buddhismo che poi sarebbe, almeno sulla carta, la religione maggioritaria dell’isola di Formosa, la bella, come la battezzarono i Portoghesi che vi approdarono nel XVI secolo. 

Foto © Huicheng1967 – CC BY-SA 4.0

Ma dire che cosa sia la religione a Taiwan è complesso e sfugge totalmente alla nostra necessità di dare etichette fisse e catalogare ogni cosa. Per le statistiche ufficiali un terzo (in crescita) della popolazione è buddhista, un terzo taoista e un terzo non si esprime. E non perché sia per forza atea, ma perché definire in maniera univoca quale sia la propria fede a Taiwan non è né semplice né scontato. Tutti si mischia e si sovrappone, uno non esclude l’altro. Dicono sia questo il significato vero del sincretismo religioso. Nei templi sparsi per le città di quest’isola per metà intensamente verde e montuosa e per metà asfalto e cemento, templi che spesso sono le uniche costruzioni che hanno più di settant’anni, si può vedere in sale attigue un Buddha che medita, una statua di Confucio spesso rappresentato solo da una tavoletta, una qualunque divinità mitologica della tradizione cinese venerata con il trasporto e la devozione che si dedica ai Santi patroni nelle nostre province. La più sentita è Mazu o Matsu che dir si voglia, colorata divinità del mare in un’isola di pescatori. A lei è dedicato un pellegrinaggio che dura settimane e mobilita tutta Taiwan. Alle altre divinità ci si rivolge per chiedere protezione, una grazia, un favore, un occhio benevolo per gli affari o la stabilità della coppia. Così la religione tradizionale è tutto un dare e avere, simboleggiato dalle montagne di cartamoneta che vengono bruciate insieme agli incensi in questi templi assai vivi e frequentati in cui i taiwanesi passano spesso e volentieri. Ed è qui che ti fai quell’impressione che Taiwan sia una Cina ancor più Cina. Perché quel che viene a cercare a Taiwan chi è affascinato della cultura cinese – e non viene fin qui perché ha interessi nel settore dei semiconduttori –, è proprio questo: un pezzetto di tradizione rimasto incastrato su quest’isola distante 160 chilometri dalla madrepatria, un’appendice insulare della grande Cina millenaria. Rispetto a Pechino qui c’è un maggior ancoraggio al passato, un senso di continuità che non è artefatto e ricostruito, ma è pane quotidiano. La differenza di atmosfera che si respira nelle città taiwanesi rispetto a quelle della Repubblica Popolare è la stessa che passa tra una Gucci originale e una comprata per strada. Qui le stratificazioni della storia, lì la cartapesta. Taiwan è un luogo unico, dove la cultura dell’Impero di mezzo è sopravvissuta all’epoca delle ideologie senza perdere un briciolo dell’eredità millenaria. Una Cina dove Tao e Confucio, filosofia e superstizione, fede e affari si mischiano di continuo. Una Cina dove ancora prosperano gli indovini che si trovano sempre nei pressi dei templi, perché va bene pregare e bruciare incensi, ma meglio non lasciare nulla di intentato. Alcuni scrutano il corpo, traggono indizi dalla forma del naso, dalle linee sulla pianta del piede, della mano, della fronte. Altri si affidano a dadi, bacchette e numeri. Ma siccome questo è anche e soprattutto un Paese ipertecnologico e moderno, ecco che all’interno di alcuni templi spuntano macchine simili a immensi jukebox dove metti una moneta, tocchi quattro tasti e in un frullare di colori esce un bigliettino con la tua predizione. Sembra una frasetta da cioccolatino o, se vogliamo rimanere spirituali, un haiku religioso.

Foto © Bernard Gagnon – CC BY-SA 4.0

Accusato di essere un po’ troppo commerciale e di cedere alla spettacolarità – c’è un’altra parte del monastero, il Buddha Memorial Center,  che per dimensioni e magnificenza sembra la replica di un palazzo imperiale cinese sormontato da una statua dell’Amitabha Buddha alta 108 metri illuminato da laser colorati –, anche il Buddhismo umanista prosegue in questa tradizione sincretica. Così il Confucianesimo tanto caro alla tradizione imperiale fa comunque parte della formazione dei monaci. Accanto a ore ed ore di meditazione viene data una rilettura buddhista dell’etica confuciana. Per cui tra gli obblighi sociali del praticante c’è anche quello, fondamentale per ogni buon cinese, di portare rispetto ai genitori e agli antenati. Così quando a sera mi ritrovo a colloquio con il rettore del monastero mi chiede come prima cosa come sta la mia famiglia. Poi se mi trovo bene, se ho mangiato a sufficienza, se sono soddisfatto e se voglio stare qualche altro giorno. Sorride come uno pensa che debbano sempre sorridere i monaci buddhisti, è gentile e disponibile. Sorride e mi dà appuntamento all’indomani mattina, alla preghiera ci sarà anche lui. Stessa ora, stesso tempio, stesso silenzio. Sempre a digiuno.

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