Gilberto Govi, grande comico del teatro dialettale, è stato per decenni molto amato dai genovesi. Mio padre, che era della generazione degli anni quaranta, pochi anni fa poteva ancora recitare qualche battuta di Pignasecca e Pignaverde nella saletta d’attesa di un ospedale, sicuro che qualcuno avrebbe annuito e accolto con un sorriso la sua performance, dando così avvio ad una conversazione che immancabilmente citava le grandi opere del maestro Govi, da i Manezzi a Colpi di Timone. Con il succedersi delle generazioni il ricordo di Govi anche nella sua città natale si sta affievolendo e la persistenza nella memoria è affidata a teatri, scuole di recitazione e scuole di infanzia a lui dedicate, cui si aggiunge un giardino pubblico a suo nome in Corso Italia, il lungomare che gli era molto caro. Il giardino è stato costruito negli anni Ottanta per nascondere la presenza di un depuratore. Mi stupisce che così tardi la città abbia trovato un posto, per giunta defilato, per celebrare nella toponomastica un cittadino che tanto ha contribuito alla costruzione e alla propagazione del tipo genovese. Deve esserci pure qualche ragione, ma a me è ignota. O forse è semplice ingratitudine: come quella che ha portato ad abbattere in centro storico la casa di Paganini, un altro dei grandi santi laici della città. I giardini di per sé non sono niente di speciale: un campetto da calcio a cinque, una rampa skateboard piuttosto moderna – il pezzo più pregiato –, una piccola pista ellittica per il pattinaggio a rotelle e i soliti giochi per bambini che vanno di moda in questi anni, con scivoli e piccoli castelli, il cui aspetto più piacevole è il soffice tartan su cui poggiano. Per il resto il giardino è completato da spiazzi grigi e alcune rotonde, qualche arbusto mediterraneo, pochissimi esili alberelli. Ma soprattutto dagli sfiati a forma di fungo del depuratore e la sua torretta principale, che pare una centrale nucleare in miniatura e per questo cattura lo sguardo e l’interesse. Ad aggiustare questa mezza miseria, come spesso accade a Genova, la vista sul mare che lambisce i giardini, e lo spettacolo eterno delle navi che si avvicinano per entrare in porto.
Prima dei lockdown non mi ero quasi mai interessato a questi giardini, anche se ci abito vicino e mi capita spesso di passeggiare in Corso Italia, sia per lanciare un’occhiata al mare sia per fare un po’ di doverosa attività fisica. Poi, una sera di primavera di quest’anno, una di quelle in cui non si poteva uscire dal proprio comune e c’era il coprifuoco, passeggiando sulla promenade ho visto da lontano delle persone in guantoni e caschetti bianchi, con indosso un costume all’orientale, che simulavano combattimenti in uno spiazzo dei giardini di Govi. La mia memoria adolescenziale li ha assimilati immediatamente a Karate Kid. Ma tutto il quadro, già avvolto nella quasi totale oscurità della sera, era una scena straniante che faceva irruzione nella stranezza complessiva della vita da reclusi di quei mesi. A partire da quella apparizione, nei giorni successivi mi è venuta la curiosità di fotografare cosa succedeva in quei giardini di notte e di giorno. Così ho scoperto che sotto la statua di Govi che pare ballare s’era creata una gigantesca palestra a cielo aperto. C’era di tutto ai giardini, con un programma che copriva dalle 7 alle 22, con attività di singoli – una minoranza –, coppie e gruppi più o meno estesi, tutti alla ricerca di uno spazio da utilizzare per fare attività fisica quando palestre, piscine, sale di danza e di teatro erano ormai chiuse da tempo.
Nei miei primi giri mattutini ho conosciuto soprattutto ballerini e ballerine di hip hop e street dance, tra cui Debora, che ha frenato il mio entusiasmo da frequentatore pandemico dei Giardini spiegandomi che lì il via vai era una novità fino a un certo punto. A mia insaputa i Giardini Govi erano da anni un punto di ritrovo per la scena dei movimenti di danza alternativi, mi ha assicurato, ammettendo però che la presenza si era rafforzata e lo scenario delle attività si era ampliato in quei mesi di locali chiusi. Per esempio a questa categoria di nuovi habitués dei Giardini, apparteneva Valentina, poco più che ventenne, ballerina di danza moderna e modella che provava coreografie insieme a un paio di amiche per uno spettacolo che avrebbero dovuto allestire su una nave da crociera, una di quelle che in quei mesi vagavano come fantasmi proprio di fronte al porto di Genova. Del resto anche le navi necessitavano di esercizio, e allora la mattina salpavano per poi rientrare a tarda notte, sempre ugualmente vuote e con l’unico scopo di tenersi in moto, perché anche questi giganti, a stare fermi, si intorpidiscono e logorano. Sempre al mattino, ma piuttosto presto, oppure sul calare del giorno, ai Giardini si tenevano corsi di yoga, in assoluto i più frequentati, con quell’ambientazione perfetta di fronte al mare. Tanto perfetta che la gran parte dei corsi continuano a tenersi lì, anche dopo le riaperture delle palestre, e pazienza se le piastrelle della pavimentazione si conficcano nella schiena e non c’è tappetino che tenga. E agli yogin si dovrebbe dare un premio, perché osservarli mentre assumono pose estreme o meditative di fronte al mare è uno spettacolo che conforta e rasserena, anche per chi è seduto su una panchina a guardare (e qui si tace della bellezza, di corpi femminili e maschili, indifferentemente).
A fianco dello yoga, che s’era preso la postazione fronte mare, un altro gruppo consistente erano quello della palestra, in gran parte ragazzi intorno ai venti. Discreti e discosti malgrado l’esuberanza esplosiva dei loro muscoli, utilizzavano in parte le attrezzature dedicate ai bambini, in particolare i muretti per le arrampicate e le sbarre delle altalene, riadattandole con creatività e compiendo evoluzioni di potenza con le braccia, sollevamenti, flessioni e contorsioni, che mi facevano venire in mente Yuri Chechi e Igor Pessina alle Olimpiadi. A tratti parevano dei grandi giganti gentili, quando cedevano il passo ai bimbi che si riappropriavano dei loro giochi o facevano lo slalom intorno ai passeggini ammucchiati davanti ai loro attrezzi.
Per la felicità di chi sostiene che la boxe e le arti marziali sono prima di tutto una disciplina per la mente, i frequentatori più educati dei Giardini mi sono sembrati proprio pugili, judoka, karateka e insomma chi simulava di colpire con violenza, tutti disponibili a farsi fotografare, attenti a non disturbare e a lasciare spazi liberi a chi praticava un’altra disciplina. Cinematografici i frequentatori dei corsi di thai-chi, con la loro lentezza composta e la simulazione dei colpi che parevano una coreografica scena d’azione tra anziani girata al rallentatore. Iconici i pugili con facce dell’Est, che scambiandomi per un giornalista mi chiedevano la cortesia di non pubblicare le loro foto sui quotidiani nazionali. Scenografici i vari utilizzatori di bastoni e spadoni, che pareva d’essere al teatro dei pupi a veder gli assalti di Ruggero e Rinaldo quando sul fare della sera si esibivano in attacchi e contrattacchi, accompagnati da urla incomprensibili e muti saluti al termine dei combattimenti. Vigorosa Elena, ventenne che sfruttava la presenza di tanti maestri di diverse discipline nei Giardini Govi per passare dall’allegro improvvisare dell’hip hop all’indossare guantoni e caschetto e iniziare a colpire con calci volanti e pugni il maestro di MMA che le si offriva, entusiasta della sua energia, come sparring partner.
Ma pur sempre si trattava di Genova (e in quel periodo del luogo più vivace della città) e allora ecco che alcuni gruppi di ballerini mugugnavano alla mia richiesta di fotografarli e a un mio complimento tanto entusiasta da sembrargli ruffiano – “quanto siete belli” – rispondevano che se erano così imperdibili potevo pagarli cinquanta euro a scatto, e aggiungevano ridendo che subito avrei notato i loro difetti e avrei perso la voglia di fotografarli. Molto genovesi erano anche quelli che non avevano voglia di incontrare nessuno, o che erano semplicemente indifferenti a tutto ciò che avevano attorno, come l’eroe solitario che faceva evoluzioni con la bicicletta sulla scogliera o la scalatrice che si calava tra le rocce senza dire una parola, per poi scomparire in qualche antro da cui non sono mai riuscito a vederla risalire.
Proprio gli scalatori sulle mura che circondano i Giardini, fatte a somiglianza degli antichi muretti a secco liguri, hanno allestito diverse palestre per allenarsi, con i loro segnali a colori e i loro percorsi. Lì ho visto fare amicizia uno spagnolo che viveva a Biarritz e un geologo genovese che si scambiavano consigli in inglese su come affrontare un passaggio. Lì, sullo sfondo del piccolo parco divertimenti per bambini, rigorosamente chiuso per il pericolo di contagio, ho visto le evoluzioni di Marta che m’hanno riportato alle mente gli scalatori dolomitici. E sempre lì ho visto facce che si sforzavano come se stessero a trenta metri da terra e invece erano a pochi centimetri, ma fare come se fossero su chissà quale falesia era il segreto per la riuscita dell’esercizio e il segno della loro tenacia. Se ho parlato al passato è perché alla riapertura della palestre molte attività sono tornate al chiuso – forse anche per ragioni di sicurezza oltre che di maggiore confort – e pochi sono rimasti ad animare i giardini, ora di nuovo occupati da mamme,bambini e alcuni nonni. Si chiama normalità, e non me ne dolgo. Però dopo tutti questi mesi di scatti e osservazioni mi viene da pensare che sarebbe l’ora di dotare Genova di più luoghi pubblici che favoriscano l’incontro, l’esercizio fisico e l’allegria. Ripetendo il piccolo miracolo accaduto sotto la statua sorridente di Gilberto Govi.