“Ci vediamo giù Napoli”. Queste quattro parole fanno capire ai napoletani che vieni dal Vomero e che hai intenzione di incontrare un amico, un conoscente, un chiunque qualunque nel centro storico. “Giù Napoli”, appunto. Per questa frase noi vomeresi siamo accusati di essere snob, di essere i “pariolini” della città, di avere la puzza sotto al naso perché tutti figli di giudici e ricchi avvocati. È una delle tante falsità sul mio quartiere. Mio padre, custode, lavorava in un bel palazzo, in una zona di prestigio, abitato da persone benestanti, ma sempre custode era. E i condomini non hanno mai condiviso con la mia famiglia i loro conti bancari.
La nostra visione del mondo è influenzata dall’ambiente di partenza. Le mappe geografiche, per secoli, sono state eurocentriche: l’Europa in mezzo, ai lati e spostandosi man mano gli altri continenti, che risultavano così deformati e poco realistici. Non è da meno la visione del mondo per chi viene dal Vomero: stando in collina, tutto il resto – tranne Posillipo, l’altra collina benestante e con la bellavista – si trova inevitabilmente “giù”. Senza superbia. Si è abituati a dirlo fin da bambini: è geografia. Possono nascere, poi, equivoci come aspettare per un’ora un’amica, ognuno convinto di stare al giusto posto per l’appuntamento: uno al Vomero, l’altra “giù Napoli”.
A “isolare” il quartiere dal resto della città hanno contribuito anche i trasporti. Almeno prima dell’inaugurazione della metropolitana, inaugurazione da molti vomeresi vissuta con lo stesso sentimento degli abitanti del Nepal nei confronti degli stranieri dopo decenni di “splendido” isolamento. Per anni i trasporti sono stati limitati ai bus che arrancavano e alle quattro funicolari dalla storia centenaria. Quest’ultime, con i loro tempi di frequenza delle corse e gli ingressi scaglionati, sembrano ponti levatoio per accedere al castello-Vomero. Anche oggi chi utilizza la funicolare Centrale, arrivato in cima è ancora accolto e premiato da una storica friggitoria, famosa per le zeppole (da non confondere con quelle dolci per la festa di san Giuseppe), conosciute anche come paste cresciute, piccoli impasti di acqua e farina fritti nell’olio. Il locale si trova in posizione strategica, ai lati di Piazza Fuga, giusto di fronte alla funicolare, una sorta di dogana che non si può e non si vuole evitare, e infatti passando non ci si nega mai un “cuoppo”.
Da bambino imparai il valore dei soldi quando, con gli amici, contavo gli spiccioli uno a uno, cercando nelle tasche monete che non c’erano. Apprezzammo lo studio della matematica quando, racimolata con sudore la cifra necessaria, dovevamo poi scegliere quali fritti prendere e decidere il giusto equilibrio, nel numero, tra zeppole, arancini e crocchè per accontentare tutti. Ma anche senza fritti i luoghi dell’infanzia sono magici per definizione, perché lontani nel tempo e perché custoditi nel proprio cuore. I miei sono due angoli tipici del quartiere che conservo nella memoria e che dagli anni Ottanta, quella della mia infanzia e adolescenza, non sono cambiati: Antignano e la Villa Floridiana. Il primo è una delle zone più popolari e antiche, c’è un mercato da tutti chiamato, chissà perché, “mercatino” anche se non è piccolo. È un salto nel passato: sembra di stare nella Napoli del Seicento. Come un quadro vivente: pescivendoli, fruttivendoli, venditori di trippa urlano a più non posso. Da bambino queste grida mi sembravano disumane e un po’ mi spaventavano. L’asfalto non sempre ricopre le stradine, a volte ci sono lastroni di pietra nera su cui si scivola terribilmente ma che hanno sempre dato un tocco d’antichità. Gli odori, come in tutti i mercati, stordiscono: quando accompagnavo mio padre la domenica mattina per piccole spese, ero attratto dai pescespada sdraiati sui banchetti di legno come se prendessero il sole, dalle vongole che sputavano acqua ma soprattutto dai polpi nelle vasche, all’aperto, con i clienti che affollavano come branchi di tonni il negozio, spingendosi per farsi servire prima. All’epoca non c’erano i numerini per cui acquistare una sogliola diventava una vera battaglia per la sopravvivenza. Ogni pescivendolo innaffiava abbondamente il suo tratto di strada; l’acqua, inondando le lastre, faceva aumentare notevolmente il rischio di cadere mentre il tasso di umidità raggiungeva livelli tropicali: sembrava di stare in un acquario.
Tra i tanti venditori, punto di riferimento per noi vomeresi desiderosi di pane fresco anche la domenica, era il vecchio seduto, fuori all’ingresso di un palazzo ma in strada, con il suo “banchetto”. Era una semplice cassetta della frutta, quelle di legno chiaro, rigirata e messa in verticale con la merce esposta, vale a dire il palatone – un pane grosso, dalla forma lunga –, oppure la pagnotta rotonda da mezzo chilo o da chilo. Pane cafone, ovviamente, vale a dire il pane che si vende a Napoli e dintorni, dalla mollica alta e dalla crosta spessa, cotto nel forno a legna e che può essere conservato, non è una leggenda, e consumato anche dopo diversi giorni. Con il mare e il dialetto forma la triade dei ricordi per gli emigranti napoletani. Sulla cassetta del vecchio, ai lati, c’erano altri grandi sacchi che contenevano altro pane. Non abbiamo mai saputo da dove venisse, quale forno fosse attivo anche la domenica per rifornirlo, ma era terribilmente buono. Le ceste si svuotavano nel giro di due ore.
La Villa Floridiana, che nel 1815 Ferdinando IV di Borbone acquistò per la moglie Lucia Migliaccio, duchessa di Floridia, da cui il nome, è il cuore verde del quartiere. Per ragazzi cresciuti in città, era la nostra giungla della Malesia e la nostra savana d’Africa. È un parco con un centinaio di piante, forse anche di più. Che piante non saprei dire, noi al massimo riconoscevamo, tra gli alberi, soltanto i pini. I reali vollero camelie a volontà e, per ospitare la collezione di animali esotici, fecero scavare nella roccia alcune grotte. Vollero regalarsi anche un piccolo tempietto rotondo, in stile neoclassico come l’edificio all’interno del parco e una scalinate bianca da veri re. Il bosco è attraversato da decine di sentieri, un piccolo labirinto ideale per giocare alla guerra o a nascondino. Sulle panchine i vecchi parlavano di cose da vecchi: calcio, governo e la guerra, ma quella vera perché alcuni di loro l’avevano fatta per davvero. “Prigionieri in Africa, quando ci liberarono ci avvertirono di non mangiare subito. Alcuni dei miei compagni si ‘abbuffarono’ e morirono perché lo stomaco non era più abituato al cibo”, era uno dei miei racconti preferiti.
La Villa Floridiana diventava perciò un covo per anziani e per i loro nipoti; con i primi a chiacchierare per ore e i secondi che scappavano da tutte le parti per non sentirli e anche per giocare. Spiccava la figura dell'”avvocato”, che poi avvocato non era, come scoprimmo in un secondo momento. Gli piaceva farsi chiamare così e tutti gli altri assecondavano il suo desiderio. Regalava pillole di saggezza, in maniera equa, agli adulti e a noi bambini: “il destino ti ha dato quello che doveva darti” oppure “hai la vita che hai”. Magrissimo, guance scavate, indossava sempre la stessa giacca grigia, vantandosi di mangiare cracker a pranzo e a cena. Viveva probabilmente a stento con la pensione, ma non parlava mai di sé se non dei suoi misteriosi studi di legge del passato.
Il Vomero nasce come borgo per gli antichi aristocratici, che già nel Seicento salivano sulla collina per sfuggire all’afa e respirare aria buona, trascorrendo al fresco qualche giorno di vacanza. All’epoca tutto era campagna, come rivela il nome che richiama il vomere dell’aratro. D’altra parte, la zona per anni è stata conosciuta come la collina dei broccoli, un nome con cui si prendevano in giro, ahimè, i suoi abitanti: ‘vruoccoli. Come accadde in altre città del Paese, negli anni ‘ 50 e ’60 la zona conobbe il cemento. Sparì il verde, spuntarono condomini e palazzi. I marciapiedi e l’asfalto sostituirono i piccoli sentieri usati dai contadini per andare a vendere i loro prodotti in altri quartieri, “giù Napoli”. A giugno, finita la scuola, con i miei amici vagabondavo per le strade nel pieno ozio estivo. Oltre al caldo, nell’aria sentivi il mare. Spesso venivamo avvolti da zaffate fresche di salsedine e l’odore delle onde arrivava fino a noi. Pur essendo in alto, dal Vomero non è possibile vedere il golfo, non in tutte le vie perlomeno. Qualche scorcio appare di qua e di là, a sorpresa e questo rende la vista ancora più bella. Ma il mare lo sentivamo, e per noi di città, noi vomeresi, era un vero privilegio anche se non lo sapevamo.