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Centonovanta metri a Tokyo

Secondo Google Maps, la distanza tra il condominio dove abito e la stazione della metropolitana di Nakameguro è di soli 190 metri. Contati, sono circa 260 passi. Bisogna soltanto costeggiare e poi oltrepassare una fila di palazzi che si frappone tra il punto A (casa mia) e il punto B (la stazione). È un percorso per nulla emozionante. Non si tratta infatti di vecchi e maestosi palazzi in pietra, né di strutture ambiziose e leggere prodotte dall’architettura contemporanea. Sono edifici piuttosto banali, perlopiù grigi e spenti, frutto di una progettazione che evidentemente predilige la velocità di realizzazione, facendoli sembrare – e forse in parte lo sono – dei prefabbricati. Tutto ciò a discapito dell’estetica, soprattutto se intesa come armonia con l’ambiente circostante. Per esempio, un edificio basso, tozzo e scrostato è seguito da un enorme condominio con le finestre minuscole, che, assieme a un misterioso ufficio tutto in vetro oscurato, schiaccia una casetta delle bambole con i muri granata e le rifiniture color panna. La metropoli giapponese, del resto, è un po’ tutta così. Al di fuori dei suoi luoghi più iconici o speciali, Tokyo è fatta di quartieri che visti dall’alto sono estremamente omogenei nella loro struttura essenziale: una stazione circondata da un grumo di ristoranti, minimarket e posti di polizia, e l’inizio di una via commerciale che si estende per un chilometro o due. Ma, una volta che si scende per strada e ci si guarda attorno, si scopre che il quartiere è fatto di palazzi di qualunque tipo, allineati e intrecciati come fili di un tappeto intessuto con mille gomitoli diversi. Si può quindi dire che il percorso di 190 metri tra casa mia e la metropolitana ha almeno una decina di gemelli in ognuna delle 882 stazioni di Tokyo e descriverlo, pertanto, equivale in un certo senso a descrivere 1.680 chilometri di città. 

Nakameguro, Tokyo, aprile 2021 (Foto di Stefano Marinoni)

Sono le 8 e 45 del mattino, la grande porta grigia del condominio si apre automaticamente scorrendo di lato. Nell’attraversare la soglia oltrepasso la sottile fessura del pavimento dalla quale, al bisogno, emerge una magica barriera di metallo alta qualche spanna, che impedisce ai tifoni di allagare l’ingresso. Due passi e sono sulla strada. Non ci sono marciapiedi, la carreggiata è già stretta abbastanza da rendere delicato il passaggio dei veicoli nei due sensi. Devo fare attenzione perché molte auto hanno il motore ibrido e non fanno rumore. Soprattutto i taxi, che passano silenziosi e composti come le cameriere che percorrono avanti e indietro i tatami di una sala da tè.

Guardo a destra, nessuno. Guardo a sinistra, ed ecco un furgoncino che si ferma davanti al palazzo di fronte. Un uomo in tuta color kaki e cappellino salta giù, apre il baule e prende dei pacchi. Sulla fiancata c’è il disegno grafico di un gattone nero che ne porta in bocca uno più piccolo, anch’esso nero: è il logo geniale della società di consegne Yamato. Dietro il furgoncino, sulla strada, arriva un vivace nugolo blu. È un gruppetto di mamme che accompagnano i figli all’asilo cattolico qui dietro. I bambini sono tutti in divisa: camicina bianca, salopette a quadratini azzurri, golfino blu scuro e cappellino coordinato, rotondo con la tesa arricciata all’insù. Ma questo non è per nulla sorprendente. Ciò che mi stupisce è che anche le mamme sono vestite allo stesso modo, coordinato con quello dei figli. Certo, non portano una divisa, ma tutte indossano un completo giacca e gonna blu marino, un golfino nero, scarpe nere di lusso ma sobrie e dal tacco non molto alto, e poi l’immancabile collanina con un piccolo brillante o una perla incastonata. Non è ardito scommettere che almeno un paio di loro nascondono un orologio Omega stretto all’ultimo foro attorno a quei polsi minuscoli. Gli passo accanto, vedo i sorrisi studiati mentre le voci gentili, ma altrettanto studiate, si percepiscono appena, e mi sembra di assistere a una terrificante partita a scacchi dove già dalla mossa d’apertura (l’asilo) si determina il successo finale (l’università, il lavoro, la posizione sociale). Per una pura coincidenza tutto ciò avviene proprio di fronte a una delle caselle chiave di questa scacchiera, ossia la sede di una delle decine di migliaia di scuole di preparazione dove gli studenti si allenano, con almeno un decennio d’anticipo, ai test d’ammissione alle università. La cosa più angosciante è che per mesi, guardando attraverso le vetrate tutte quelle tristi scrivanie inscatolate in box grigi, mi ero convinto che si trattasse di una società di assicurazione o di una finanziaria. 

Una mamma accompagna il figlio a scuola, Nakameguro, Tokyo, aprile 2021 (Foto di Stefano Marinoni)

Ho fatto pochi metri e mi trovo al primo piccolo incrocio. Rallento un attimo per decidere se entrare al konbini1 per pagare le bollette, ma intravedo la lunga fila di gente venuta a comprare qualche snack ipercalorico e un bicchiere di caffè americano. Da dietro le spalle giunge il rumore della saracinesca del negozio di fiori che sta proprio dirimpetto al minimarket. Il proprietario, che chiameremo Baffo, è arrivato col suo furgoncino. Non ha tempo da perdere, ma mi vede e sorride bonario, bofonchiando qualcosa. I fiori intanto sono già tutti al loro posto, ben disposti lungo i due lati della strada che fanno da angolo. Sembra incredibile,  ma non li ritira mai. Piantine di basilico, violette, ciclamini e rosmarino stanno lì dalle nove di sera (chiude davvero tardi, il Baffo) alle nove del mattino, quando l’attività ricomincia, tutti i giorni della settimana (non si riposa proprio mai, il Baffo). Se a prima vista sembra inevitabile domandarsi perché lasci incustoditi i suoi fiori, col tempo ci si abitua a farsi la domanda giusta: per quale motivo qualcuno dovrebbe rubare un vasetto di ciclamini da 250 yen? 

Un negozio di fiori nel quartiere Nakameguro, Tokyo, aprile 2021 (Foto di Stefano Marinoni)

Attraverso l’incrocio ed ecco entrare in scena, prepotente, una sala di slot machines e pachinko. È mastodontica e la cosa fa riflettere e anche un po’ rabbrividire, considerando il costo astronomico degli affitti per metro quadro a Tokyo. Non fa ancora abbastanza caldo, ma quando comincia l’estate fuori dalla porta si forma sempre un capannello di persone di ogni età che aspettano silenziose l’apertura. Qualcuno a volte uccide l’attesa sonnecchiando per terra. Una volta accese, le batterie di macchine infernali fanno un rumore assordante che si sente persino in strada. È un suono senza alcuna melodia, sebbene sia la somma delle musichette alienanti di ciascuna delle centinaia di slot allineate nello stanzone. Va oltre il concetto di cacofonia e potrebbe invece assomigliare al frastuono dei telai di una gigantesca fabbrica tessile, oppure a un’orgia tra robot. Esattamente di fronte e in totale contrapposizione al caos meccanico della sala slot c’è una meravigliosa izakaya2, dove amici e colleghi si ritrovano in un allegro e piacevole baccano. Per accedervi bisogna entrare nell’androne del palazzo e aprire una porticina scorrevole alta non più di un metro e mezzo. Ci si ritrova in una stanza buia, bassa e senza finestre, dove metà dello spazio è occupato da un grande braciere su cui vengono preparati piatti semplici ma prelibati. Cuochi e camerieri urlano «benvenuto!» a ogni cliente che fa capolino, e a un certo punto della serata si spengono le luci e la brace diventa un falò ragguardevole dove viene abbrustolito il pesce del giorno. Il cuoco urla «Chi lo vuole?» e i clienti alzano le mani urlando. Mentre le fiamme lambiscono il soffitto, mi capita di pensare a quell’unica via di fuga grande come l’ingresso della tana del Bianconiglio. Poi, pagato il conto, si torna in strada, ma è bene farlo con lentezza: immancabilmente una cameriera ti corre dietro per regalarti una bustina di zuppa di miso liofilizzata. Bisogna stare al gioco e non farsi scrupoli tergiversando nel locale, perché lei per qualche strana ragione attenderà di poter rincorrere i clienti sventolando le bustine.

L’ingresso di una sala slot e pachinko a Nakameguro, Tokyo, aprile 2021 (Foto di Stefano Marinoni)

Sono solo a metà strada, devo allungare il passo. Taglio a destra per un vicolo che inizia con il negozio dove tutto costa 100 yen e dove mia madre, da quando è venuta a trovarmi, è convinta di aver stretto amicizia con la cassiera. «Salutamela quando la vedi!», ci tiene a ricordarmi quando ci sentiamo al telefono. Il vicolo, pur corto e stretto, è un alveare di locali che non potendo allinearsi lungo la strada si sviluppano in verticale, su fino al sesto piano e giù fino al secondo interrato,  spartendosi ciascun livello in due o tre. Si tratta per la maggior parte di night bar, dove per una tariffa a minuti si può chiacchierare e cantare al karaoke con qualche ragazza. Appena cala il sole gli ingressi del vicolo cominciano a pullulare di buttadentro, elegantoni in giacca, cravatta e scarpe lunghe, oppure ragazze con due dita di trucco e vestiti striminziti o, a volte, costumi da soldatessa, poliziotta o animale felino (tranne in inverno, quando fa troppo freddo e allora si coprono con piumini lunghi e ben poco sensuali, molto simili a quelli indossati dai calciatori quando stanno seduti in panchina.

Il vicolo termina proprio di fronte all’ingresso della stazione. I binari scorrono sopraelevati a due piani d’altezza per mezzo chilometro verso sud. Nel novembre del 2016, sotto le volte di questo lungo ponte ferroviario hanno aperto decine di ristoranti e negozi. È accaduto tutto improvvisamente: il giorno prima c’era un lungo sipario fatto di lastre di metallo e il giorno dopo sono comparsi tutti questi locali uno in fila all’altro. C’è uno standing bar specializzato in cucina oden3, un ristorante di sushi, uno di udon, un coreano, un italiano, e così via. Quello che si fa notare più di tutti è un piccolo ristorante di curry giapponese. Per un po’ di tempo è stato per me un enigma. I piatti non sono notevoli e il locale è piuttosto anonimo, eppure ciclicamente fuori dalla porta si allineano decine e decine di clienti che aspettano chissà quanto per entrare. Cosa ancora più curiosa, sono tutte donne o ragazze, che a vederle sembra una sfilata essenziale di moda tokyoita: le studentesse in divisa, le ventenni con l’outfit normcore del momento (camicia bianca lunghissima portata fuori dai pantaloni e compressa da un gilet super-corto color marroncino o nero), le impiegate con il trench beige d’ordinanza, magari con il dorso in pizzo per sfuggire a uno standard (e finire automaticamente in un altro).

E dunque qual è il segreto di questo ristorante? Finalmente l’ho scoperto: appartiene alla galassia di LDH, una holding nata dal successo commerciale degli Exile, boyband fondata a cavallo del 2000. Il termine “boyband” a dir la verità non descrive adeguatamente la dimensione commerciale del gruppo. Basti pensare che tramite la holding i sei membri originali della band possiedono una casa discografica, una cinematografica, un’agenzia di moda, una scuola di canto, danza e recitazione per bambini e ragazzi (da cui confluiscono nuovi artisti per le etichette LDH), una palestra e una linea di cibo proteico, una società che organizza matrimoni, ben sette marchi di moda e otto ristoranti. La maggior parte di questi posti si trova a Nakameguro, nel raggio di meno di un chilometro. Ma non è facile capire la loro appartenenza a LDH, perché in nessuno dei ristoranti o dei negozi di vestiti si fa alcun riferimento alla band. Tuttavia, ed ecco svelato il segreto, di tanto in tanto viene introdotto nel menù un nuovo piatto o drink “ideato” da un membro della band, oppure regalano dei gadget, o addirittura – delirio assoluto – comincia a girare voce sui social che qualcuno degli Exile ha appena fatto una capatina e si trova ancora lì. 

Stazione di Nakameguro, Tokyo, aprile 2021 (Foto di Stefano Marinoni)

Adesso, però, è ancora presto, sono appena le 8 e 47, e i ristoranti non aprono prima delle undici. Intanto sono arrivato, la strada è finita. Sento già gli annunci registrati della metropolitana arrivare dai binari sopra di me. Ho percorso appena 190 metri, eppure qui sono riuscito a descrivere solo una piccolissima parte di quella quarantina di negozi allineati, incastrati nei palazzi stretti e grigi di Nakameguro. Per non parlare degli edifici stessi e delle persone che vi entrano ed escono, che sfrecciano e si attardano, che barcollano in compagnia o scrollano i social mentre camminano. Il quartiere stesso sembra procedere a tempo di post-like-scroll. Tutto cambia molto rapidamente lungo questa strada: oggi un palazzo viene abbattuto, domani ne spunta uno ancora più alto; la settimana scorsa un bar ha cambiato gestione, la prossima inaugurano un negozio di caffè. Accade ogni giorno qualcosa di nuovo, e così pure in tutte le altre stradine da 190 metri della metropoli più popolata del mondo.

1 Minimarket aperti 7/24 dove la merce ha prezzi molto contenuti e che offrono vari servizi come il pagamento
bollette, l’acquisto di biglietti per concerti, e altro ancora. Il termine konbini viene dall’inglese convenience.

2 Osteria tipica giapponese

3 Piatto solitamente invernale fatto da verdura, uova e talvolta pezzetti di carne bolliti nel dashi, un brodo
leggero di pesce e alghe.

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